Quando l'arte parla attraverso le tecnologie



Cosa indaghiamo

Si parla molto, in questi anni, di prodotti esperienziali.
Alcuni economisti, per esempio, ci spiegano che venendo meno fattori identitari e ideologici, alle merci abbiamo trasferito il compito di offrirci qualcosa di più significativo del semplice valore d'uso. Qualcosa che ci dia "significati", ci "conforti", arrivi così in là da "costruire" uno status che non è più solo il symbol, per farci riconoscere dagli altri, ma addirittura per "narrare" chi siamo a noi medesimi (cfr. Bettiol Marco, Micelli Stefano, 2005 Design e Creatività nel Made in Italy. Proposte per i Distretti Industriali. Bruno Mondadori, Ricerca 2005).
Detto così fa persino paura: che sia un oggetto ad aiutare la costruzione di (Graziano Laura, 2005 Introduzione a Mancarsi. Assenza e rappresentazione del sé nella letteratura del Novecento, Ombre Corte Culture Verona 2005).
Ma, tenendoci un livello più basso, è sicuro che quando acquistiamo qualcosa, che non sia lo stretto necessario alla sopravvivenza, facciamo sempre una scelta complessa, più o meno consapevolmente, in cui si riverbera ciò che siamo.
A questa sfera di acquisti appartiene senza dubbio il turismo, ovvero quel tipo di beni che hanno a che fare con il tempo libero, la vacanza, l'ozio ma anche, e sempre di più, una parte rilevante dell'acquisizione culturale.
È in questa sfera che l'esperienza museale, ciò che fino a qualche anno or sono avremmo definito volgarmente "andare al Museo" o "visitare una mostra", sta radicalmente mutando le sue potenzialità.
Va da sé che in questa modificazione del consumo d'arte c'entrano, oltre che il visitatore (destinatario dei prodotti esperienziali), anche i produttori culturali e le tecnologie: insomma c'entra la manifattura culturale, una delle nuove industrie.
Tutta la teoria e le buone pratiche che stanno dietro le poche righe di premessa, trovano un efficace esempio nella Mostra che Fondazione Benetton Iniziative Culturali allestisce nella sua sede di Treviso, il restauratissimo Palazzo Bomben, a due passi dal Duomo, dalla Pescheria, dai Buranelli, dalla Casa dei Carraresi.
Nel cuore della Treviso culturale, storica e turistica.
Sia detto, e non tra parentesi, che il compendio, sede della Fondazione, è di per sé una versione eccellente della messa in valore di beni ereditati dal passato: un heritage product. Basterebbe, cioè, che fosse aperto alle visite, con le sue stanze decorate e con il suo cortile, affacciato alla Roggia, per fornire al visitatore (foresto o nativo) una esperienza.
Ma la missione della Fondazione va giustamente oltre, produce cultura.
Anche nel formato espositivo.


Quando l'arte si tace

La Mostra Quando l'arte si tace, riguarda due artisti legati a Treviso: Gino Rossi (che ci muore nel 1947) e Arturo Martini (che ci nasce nel 1889). Le ragazze addette all'accueil avvisano, premurosamente e professionalmente, che si tratta di una mostra documentaria e non di una esposizione di quadri. È un primo tocco di raffinata "selezione del pubblico", probabilmente già indirizzato verso mostre meno generaliste, e su artisti "minori". Non voglio mancare di rispetto all'arte, ma è come quando su un lungo arenile, basta spostarsi di cento metri dall'accesso principale e la folla si dirada. In molti casi non servono divieti o selezioni sul prezzo, basta spiegare al fruitore di cosa si tratta.
La Mostra, infatti, propone documenti, tra cui i disegni del periodo manicomiale di Gino Rossi, un assemblaggio ossessionante, nel quale la trasparenza del plexiglass su cui sono montati, contrasta con l'affollarsi dei disegni, tracciati su ogni pezzo di carta disponibile: riviste d'arte, di medicina, libri di Gauguin, pagine di enciclopedia e di quotidiani, carta intestata dell'ospedale psichiatrico, foglietti bianchi e color vino. Siamo di fronte ad una gabbia trasparente, creata con la propria espressione artistica.
L'impatto, a proposito di esperienza, è fortissimo.
E ancora più inquietante è lo sfondo sonoro, un semplicissimo canto di uccelli, che subito dopo ci viene spiegato come unico sonoro del S. Artemio, il manicomio di Treviso, insieme alle voci dei malati.

Chi ci spiega, è un infermiere, Onorio Ghirardo, che insieme ad altri e ai dottori, è in un'altra stanza del Bomben, dentro un film. Sono narrazioni, raccolte nel 2005 da Riccardo De Cal. Alcune si svolgono nel giardino del manicomio, altre nelle case dei narratori, ormai tutti anziani o molto anziani. Alcuni di loro parlano in dialetto, altri con un forte accento trevigiano: sembrano bravissimi attori, qualcuno di loro è visibilmente commosso. Raccontano di Gino Rossi, ma è l'occasione per riflettere sulla loro vita e sul tempo andato.
Racconta Ghirardo: Rossi era solo, isolato. Aveva perso il tempo. E poi traccia uno spaccato dei manicomi di allora, dell'artista che era anche istruito, praticamente e non trovava, tra i malati comuni, motivo di conversazione e di conforto; riflette sugli infermieri che non potevano essere molto buoni coi malati perché facevano 24 ore dentro e 24 ore fuori, badavano a tutti come potevano, insomma imbrutalivano.
C'era solo il canto degli uccelli, non la radio, non la televisione. Gli uccelli, le grida dei malati e il silenzio. Forse Rossi era solo depresso (amenza allucinatoria, secondo la diagnosi), ma allora non c'era distinzione, i malati erano tutti insieme, tutti uguali.
Nel ricordo di tutti gli infermieri ci sono le mani, di Gino Rossi. Racconta Carniato: muoveva sempre le mani come se stesse preparando dei colori, per dipingere. E, nel filmato, in primo piano, ci sono anche le mani dei narratori: accompagnano le loro emozioni, nel ricordo. Lo story taker, che ha filmato i narratori, ci restituisce una esperienza fortissima.

Il filmato rappresenta, attraverso supporti ormai tradizionali (il cinema e la televisione), uno dei modi di documentare, di fornire esperienze al visitatore. Non è "andare al cinema" e non è "andare al museo", non è nemmeno "videoart": forse la contaminazione delle arti è qui rappresentata concretamente. Si tratta di una forma documentaria, la narrazione diretta, che si avvicina ad una specie di "museo delle storie", affidate ai protagonisti non protagonisti, nel senso che non sono attori, interpreti. Forse per l'uso del dialetto o degli straordinari primi piani di questi anziani, che costruiscono memoria con una intensità e una presa diretta insostituibili, viene in mente il riferimento del filò.
C'è molto Veneto, in questa Mostra.

Altri filmati ci aspettano nella stanza successiva.
Il regista Paolo Saglietto e la Corona Cinematografica, negli anni Sessanta, producono tre corti (12 minuti): uno su Giovanni Comisso, altro trevigiano celebre, Un simbolo chiamato zero; uno su Gino Rossi, Il mio dissenso; uno su Arturo Martini Arte Senza Pace.
Nel filmato su Comisso, il vero protagonista è il paesaggio Veneto, attraverso il romanzo La mia casa di campagna (ambientato nella campagna di Treviso), e il rapporto tra lo scrittore e il mondo contadino, che alla fine degli anni Sessanta sta cominciando a risentire dello sviluppo industriale e urbano. Ci sono immagini bellissime dei falò del pan e vin, a colori: faville che si spargono nella notte, come i fuochi del Redentore. E poi volti e gesti contadini, in bianco e nero. Si dichiara stanco, Comisso, nel 1965: chissà come reagirebbe oggi vedendo dove è arrivato l'urbano nella campagna trevigiana!
Se nel primo filmato c'è una sorta di "artista spiegato dagli infermieri", in questa sala troviamo la storia del Veneto contemporaneo "spiegata dagli artisti": un'altra contaminazione culturale, tra punti di vista.

I documenti messi insieme al Bomben, possono risultare insoliti per una mostra, ma raggiungono certamente l'effetto di esperienza. Generare esperienze, attraverso la documentazione e la produzione di memoria recente: un'arte difficile, forse più che suggestionare lo sguardo con l'esposizione di quadri.
Questa produzione esperienziale è possibile solo attraverso specifici tecnologici e non scomoderemo McLuhan per ricordare che il mezzo genera il messaggio.
Sono proprio questi ultimi, i mezzi, con la loro incessante innovazione a suggerire nuove formule di esperienza culturale, di fruizione delle eredità dal passato e di messa in valore della memoria.
Quando pensiamo ad un archivio, molti di noi, i non addetti ai lavori, paventano una gran noia: non metterebbero piede nei santuari della mamoria. Le nuove tecnologie non ci permettono soltanto di salvare e manutenere una straordinaria mole di materiali documentari (per esempio i manoscritti, gli schizzi e le fotografie) ma anche di esporle, in modo "divulgativo".
È ciò che avviene all'ingresso della Mostra.
Se riuscite a non farvi catturare dal soffitto, con le sue eleganti travi dipinte, la stanza ospita un unico grande tavolo biografico, un touch screen orizzontale, con due semplicissimi comandi (avanti-indietro), come in un vecchio, grande libro da sfogliare, sul leggio. Scorrono lettere, diari, giornali, cartoline, fotografie degli archivi trevigiani, sui due artisti e sul loro milieu culturale, in una selezione organizzata per anni, che rapidamente e gradevolmente, introduce il visitatore qualunque ai personaggi e al contesto.
Un riassunto visivo, che ordina una sterminata mole di materiali d'archivio, in modo facilmente assimilabile. La parola edutainment è difficile da tradurre (intrattenimento educativo?) ma questo tavolo biografico fa capire uno dei modi di apprendere con leggerezza, grazie all'impiego di tecnologie idonee.
Naturalmente ci sono dei vincoli di fruizione (una persona alla volta decide di voltare le pagine, non più di dieci persone possono guardare contemporaneamente attorno al tavolo) ma il potenziale è interessante. Qualcuno che non metterebbe mai piede in un archivio epistolare, né leggerebbe per intero i cartelloni espositivi che riassumono la vita di un artista, forse con questo tavolo potrebbe divertirsi ad imparare qualcosa.
Le potenzialità del tavolo diventano illimitate se divulgate sul web o su CD.
Ognuno di noi, nel suo piccolo, diventa un archivio di memorie, semplicemente invecchiando. Quanti avranno pensato che le "carte" della propria famiglia, montate su quel tavolo intelligente, potrebbero raccontare la storia del paese, della regione, dei campi o delle fabbriche, e delle arti?
Esperienza da fruire. E da copiare.


Isabella Scaramuzzi, 2006


Vedi anche: Studi in corso - Memorie industriali, tra terra e mare


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