Venice, the Tourist maze


Robert C. Davis e Garry R. Marvin, 2004

Venice, the Tourist maze
A cultural critique of the world's most touristed city

(University of California Press, Berkeley USA)
www.ucpress.edu

Do you want to go back to St.Mark's Square?
No. There's nothing there. No. There's not much to do there.
You could sit and watch a million tourists.

(dialogo tra marito e moglie australiani, in campo S.Vidal, pag. 75)



Il volume di Robert C. Davis e Garry R. Marvin, Venice, the Tourist maze. A cultural critique of the world's most touristed city (University of California Press, Berkeley USA www.ucpress.edu) è impegnativo: non solo perché non ne esiste (per ora) una traduzione italiana ma perché sono quasi 360 pagine fitte, ricche, complesse.
Lo storico dell'Ohio (USA) e l'antropologo del Surrey (UK) dedicano alla città più turisticizzata del globo un grande viaggio culturale, che spazia in discipline diverse, dà fiato a moltissime suggestioni, instancabilmente cambia punto di vista, non si posa su nessuna posizione esclusiva (we have tried to maintain a non prescriptive stance on Venice's many problems, pag. 294).
Come giustamente annota la quarta di copertina, gli autori danno equa considerazione a chi abita Venezia e a chi la visita, cercano di approfondire il punto di vista attivo e passivo del turismo (touring e toured).
Un'equità non sempre presente negli studi sul turismo a Venezia, che tendono a fare del visitatore il capro espiatorio dei mali cittadini, un alieno nemico.
Chi cercasse la verità o l'ultima parola sul dedalo turistico di Venezia, resterebbe deluso: non ci sono certezze nel volume, semmai tanti salutari dubbi. Il termine stesso maze dice, chiaramente, quale sia la percezione degli autori rispetto alla confusione di percorsi, in cui è facile perdersi.
Come turisti, certo, per le calli veneziane, ma anche come studiosi di turismo nella città che il turismo ha "intriso indelebilmente di sé": touristed è bellissimo e difficile da tradurre, diverso da touristic.

La ricchezza è, nello stesso tempo, il limite del libro: forse in un percorso storico lunghissimo (tra pellegrini e nuovi barbari del turismo industriale) e in un approfondimento sociale e culturale a molti fuochi, i due autori rischiano di smarrire le intenzioni dichiarate in premessa. Oppure, hanno deciso di lasciare totale responsabilità a chi legge: che si confezioni da sé le proprie conclusioni, le quali, infatti, mancano, sostituite da una postfazione sdrammatizzante chi ciapa schei xe contento (i altri no).

Per chi ha letto e scritto tonnellate di carta sul turismo a Venezia, le promesse della premessa sono lusinghiere: questo libro vuole mettere in evidenza il filo che unisce, attraverso i secoli, la vera attrazione di Venezia: l'immagine.
Gli autori definiscono senza esitazioni Venezia il primo caso di città postmoderna, la quale vende come prodotto esclusivamente sé stessa: città dello sguardo, scena, senso dello stile. Questo accade, secondo Davis e Marvin, fin dal Medioevo.
La stessa ripartizione dei capitoli in sezioni - soprattutto la prima e l'ultima, timescape e worldscape - promette una lettura diversa da quelle solite e locali.
Lo sguardo del foresto fa bene, ci fa valutare cose che scompaiono nella quotidianità e ci apre a nuove interpretazioni, forse utili a trovare modi di intervento che tutte le nostre ricerche non sono riuscite a produrre.
Io ho fatto come suggerisce Pennac, ho usato il libro con tutto l'arbitrio del libero lettore. Sono andata alle parti promettenti e anche quelle le ho lette "saltando", cercando quello che speravo di trovare: uno sguardo diverso dal mio, dal nostro, di locali studiosi del turismo.

Le parti dove sono più citata (Landscape), in virtù delle lunghe chiacchierate con Bob Davis, nelle quali si ritrovano dati e idee del COSES, le ho volutamente saltate: spero siano utili a chi non conosce i nostri lavori e soprattutto non riesce a leggerli in italiano. Ringrazio Bob per aver valorizzato le nostre pubblicazioni (citate in bibliografia e ancor più nelle note) presso un pubblico -accademici di storia e di antropologia - che abitualmente non raggiungiamo.

La prima premessa affascinante, del libro, riguarda proprio la storia, la continuità etnografica nello svolgersi della storia del turismo a Venezia: non essendo uno storico, speravo che mi venissero dimostrate le continuità che intuisco e sulla base delle quali ritengo sia distorta la condanna dell'attuale turismo veneziano, semplicemente perché "rimuove" il consumo culturale di massa. In altre parole mi piace quando gli autori premettono che Venezia ha sempre venduto più immagine che arte: produzione e consumo di questa immagine sono le costanti, a monte dell'evoluzione turistica.
Non poteva che finire così, detto in altro modo.
La seconda premessa, da me altrettanto condivisa, è la concezione, da parte dei forestieri, di Venezia come un reame irreale (romantic), che nega la possibilità stessa di essere considerata un luogo dove si vive: il fatto che la città sopravviva a questa negazione, costitutiva della sua immagine, è il vero paradosso.

Aggiungo che, alla fine della premessa, i due autori avevano messo in moto nella mia mente l'idea che Venezia sia l'insieme di due immagini (percezioni) di città parimente irreali: quella dei turisti e quella dei residenti (o di parte dei residenti) che continuano a pensare ad una "grande città internazionale, innovativa, culturale, capitale". Una immagine, appunto, che corrisponda all'ideale di città contemporanea, globale e capitale, che tutti vorrebbero. Chi vive qui, esattamente come chi vive a Parigi o a Glasgow o a Salonicco.
In altre parole, ho considerato che la Venezia dei veneziani esiste (solo) nella opposizione a quella irreale dei turisti, non per affermazione di fatti, ma per negazione di sogni romantici che si ritengono deteriori, in quanto banalizzati e massificati. Due immagini, tenute vive da due "suggestioni collettive": quella dei turisti, decisamente vincente e quella dei residenti, debole ma non meno fantastica.

Con queste suggestioni e con queste aspettative ho percorso il libro.
In Timescape si scoprono davvero molte analogie col turismo che oggi consideriamo massivo, banale e deteriore: gli autori (lo storico Davis) soddisfano pienamente la suggestione promessa circa la continuità nella politica di accoglienza Veneziana. I tolomazi (pag. 24), le guide del XIII secolo ricordano così tanto i colleghi di oggi! E i 42 giorni di celebrazioni, da aprile a giugno, con i loro spettacoli, intrattenimenti ed opportunità per pellegrini diretti ad Oriente, sono un invidiabile industria postmoderna.
Passando al Grand Tour, due o tre secoli dopo, lo storico (Davis) infierisce sulla caratterizzazione speciale di Venezia, la quale non ha alcuno degli assiomi per diventare tappa del percorso di formazione del giovine e ricco signore straniero: non ha educazione universitaria (se non a Padova), non ha un clima ameno, non ha attrazioni archeologiche o rovine classiche, ha orribili cuochi e un cibo risaputamente deludente. Unica attrazione standard da Grand Tour: lo speciale Governo della Serenissima, la Politica. Proibito sorridere, pensando ai nostri giorni. Ed ecco che Venezia, per supplire a queste mancanze attrattive per grandtouristi, sfodera le proprie capacità mondane, festaiole, oltre il limite del vizio e diventa, per usare la definizione più brutale, il bordello d'Europa: giochi, denari, feste, prostituzione. Las Vegas? Una lunga descrizione storica delle Carnaval Diversion del XVIII (pag. 35) è utile se collegata al Capitolo 10 (in Worldscape) dove gli autori constatano come sia degenerato in fretta il Carnevale postmoderno, rinato negli anni Ottanta e "sottratto ai veneziani" nel breve volgere di una decade.

E veniamo a Worldscape.
La prima suggestione assai forte che gli autori mi regalano è una lettura dell'internazionalità di Venezia assai poco edulcorata, e anzi piena di ombre.
Mi sono venuti in mente i gialli Donna Leon, la quale preferisce non avere versioni italiane (mentre viene tradotta e venduta ai quattro canti del mondo), perché descrive un milieu veneziano e una venezianità che piacerebbe poco ai veneziani. Anche l'internazionalità, vista da Davis e Marvin, non è proprio esemplare: a cominciare dal titolo del capitolo 9 Restoration Comedies, che presenta l'impegno dei comitati stranieri per la salvezza di Venezia. Il capitolo si apre con una pungente critica ai restauri sanitari neogotici del tardo Ottocento, tanto per cominciare con creazioni recenti, le quali hanno reso la Basilica e il Palazzo Ducale, monumenti in cui l'immagine "storica" (quella gradita al gusto dell'epoca) è prevalsa sull'arte.
Segue una descrizione del turismo elittario, tra gala, regatte e shopping sotto l'ombrello del Save Venice. Fino alla citazione dal New York Time di peculiar kind of international mafia, affibiata alle comunità internazionali (con qualche pizzico di contesse autoctone), che si occupano di salvare il patrimonio. Decidono loro cosa sia degno di questa salvazione, con un occhio di riguardo all'immagine, alla risonanza, alla scena.
Tanto per gradire.
Nel Capitolo 10 si esamina il rinato Carnevale (Fools).
La citazione, questa volta, è dalla Guida Baedecker, la quale sostiene che la cultura viva dei Veneziani tiene insieme la città e i turisti al palo (siamo alla fine dell'Ottocento!). I due autori sostengono che, invece, a partire dagli anni '60 del Novecento si è registrato un soffocante abbraccio del mondo esterno verso la cultura veneziana: una marea di entusiasmo foresto ha sommerso la produzione culturale locale, una espropriazione che ha trasformato il collante urbano in una imitazione di sé stessi, surreale e fastidiosa.
Può essere un eccesso di antropologia sociale. Che l'abbraccio globale alla cultura locale possa essere mortale, è una interpretazione non priva di fondamento, e non solo a Venezia. Ma individuare questo abbraccio all'inizio degli anni Sessanta, e riferirlo alla cultura, ha un tono dissonante, rispetto al coro che indica nella massa dei turisti mordi-e-fuggi di fine Novecento la causa di ogni degenerazione, urbana e turistica. Mette l'indice su ben più radicate, lontane e complesse elaborazioni mediatiche, semantiche, culturali.
Venezia, dicono gli autori, è una delle peggiori situazioni urbane per cortei carnevaleschi, per feste travolgenti; i veneziani sembrano una cittadinanza poco incline alle carnevalate.
E dunque, che cosa rende così famoso e ricercato il Carnevale, presso i foresti?
I fattori suggeriti degli autori sono interessanti: invece di nascondere, le maschere di Venezia garantiscono identità e riconoscimento, maschere e fotografi sono il binomio vincente, gli intrattenitori per il Carnevale affluiscono dal mondo intero per avere qui il loro business spettacolare.
Il Carnevale di Venezia è, in realtà, un World Carnival, la città un teatro di posa, un container dove si recita una tragedia postmoderna, dove si perpetra un sequestro culturale.
Nel capitolo 11 Taking it all home si trova una ardita combinazione tra i souvenir e The Venetian Nevada. Nel caso dei souvenirs è interessante quanto sostenuto circa l'indifferenza per l'autenticità e il valore artistico dei prodotti tipici veneziani: essi valgono per il turista in quanto memoria dell'esperienza, sono appropriati semplicemente in quanto Venezia è conosciuta per la propria produzione. Anche se prodotti a Taiwan o a Bassano del Grappa essi hanno una autorità semiotica che rappresenta la tradizione locale.
È un punto di vista che si richiama a Baudrillard e alla differenza tra rappresentazione e simulazione, citata (pag. 288) a proprosito della riproduzione di Venezia costruita da Sheldon Adelson vicino a Las Vegas.
Gli autori citano alcuni precedenti analoghi, a Londra: nel 1843 un modello in scala ridotta all'Egyptian Hall di Piccadilly; nel 1892 all'Olympia Exhibition Hall, Venice Bride of the Sea in scala naturale, con 30.000 visitatori al giorno (pag. 283).
La parte dedicata a The Venetians va gustata dal lettore: un piccolo viaggio nell'artificio che diventa reale, almeno quanto la vera Venezia: la quale, ricordiamolo, è per il turista il reame del non reale. Postmoderna, ante litteram.
Notano gli autori che in Nevada si rovescia il tradizionale rapporto tra attrazione (Venezia) e servizi dell'ospitalità (es. hotel e shops): nel luogo di Adelson sono le attrazioni (le facciate dei monumenti, le piazze, il Canal Grande) ad essere create in funzione dei servizi (le 3.000 suites alberghiere, il Grand Canal Shoppes).
Industria turistica postmoderna.
Il creatore di Venetian si aspetta un ritorno economico dalle attrazioni offerte: il visitatore soggiorna e spende in F&B food and beverage, shopping, gambling e sleeping there. Gli autori invitano a riflettere che questo è esattamente lo stesso meccanismo per il quale coloro che posseggono a Venezia (quella vera) hotel e ristoranti lamentano che i visitatori vengono per "vedere" gratis la loro città, e se ne vanno in fretta senza "spendere" (pag. 291). Dito sulla piaga.
Il capitolo si chiude insieme al cerchio tra la finta Serenissima statunitense e quelle Londinesi: Adelson, come gli inglesi vittoriani fans della città lagunare, sostiene che Venezia non appartiene ai veneziani, ma al mondo. Un mantra che ha come corollario, secondo gli autori, il fatto che un luogo i cui cittadini sono spodestati dalla sovranità fatica a rimanere una città diventa un parco a tema.
The Venetian, alla fine, è più reale di Venezia: un luogo genuinamente costruito per il più concreto business del mondo postmoderno, ossia vendere l'immagine per profitto.
Chi ciapa i schei xe contenti, i altri no, il Capitolo 12, chiude con ironica leggerezza un libro impegnativo. E, anche in questo caso, i due foresti scrivono righe poco compiacenti su fatto che, alla fine, chi ciapa i schei sia spesso veneziano. Benchè si lamentino tutti dello sfruttamento straniero di Venezia molti veneziani continuano la tradizione della Serenissima di essere i "più orgogliosi mercanti di sé stessi" ovvero della loro città unica al mondo. O, forse, dovremmo guardare con simpatia a quanti cedono ai turisti ricchi o massivi, pezzi di palazzi per seconde case, hotel, superettes del souvenir: in fondo, riflettono Davis e Marvin, asseriscono una sorta di proprietà del luogo, seppure con un cinismo autodistruttivo (pag. 298).
Gli autori testimoniano stima nei confronti di quanti vogliono salvaguardare la propria cultura nativa, ma si permettono di notare che la resistenza ad ogni novità potrebbe penalizzare, alla fine, più i residenti che i turisti.
Se è difficile non deludere un lettore di thriller, figuratevi un libro come questo: non c'è assassino, non c'è il cadavere, non vincono i buoni.
Viva Venezia!


Isabella Scaramuzzi, Venezia 30 novembre 2005

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