Tassi di occupazione femminile bassi: un problema di talenti nascosti

Cosa indaghiamo

Le indagini svolte in Italia confermano che la donna lavora molte ore al giorno in casa per accudire i figli, assistere gli anziani e svolgere le mansioni legate al vivere quotidiano in famiglia. Se poi è anche una lavoratrice esterna, la sua giornata lavorativa va molto al di là delle ore dedicate al lavoro in casa. Sappiano, però, le donne che uno degli obiettivi di politica economica italiana ed europea è portare il tasso di occupazione femminile (occupate su popolazione femminile in età lavorativa) al 60% entro il 2010. Per l'Italia questo significa aumentare il tasso di circa 18 punti percentuali. Il nostro Paese si colloca all'ultimo posto della graduatoria delle 15 nazioni appartenenti all'Unione Europea.
Per aumentare il tasso di occupazione femminile occorre incentivare l'ingresso o il reingresso nel mercato del lavoro delle donne e creare posti di lavoro che attraggano il segmento femminile attraverso una domanda per settore, per tipo di lavoro e per flessibilità di impiego che incontri le esigenze dell'offerta di lavoro femminile al lavoro.
Ma raggiungere l'obiettivo dell'aumento dell'occupazione femminile significa anche ripensare ed investire risorse in alcuni servizi di welfare rivolti alle famiglie, si pensi ai servizi di assistenza dei bambini e a quelli di cura degli anziani, e rimodulare per fasce orarie l'apertura degli uffici pubblici e quella dei negozi. Occorrono in pratica coerenti politiche non solo del lavoro e sociali, ma anche dell'intero sistema economico e produttivo.
Se è vero che all'aumentare dell'occupazione si incrementano i redditi e si producono nuove risorse finanziarie attraverso l'aumento del gettito fiscale, non risulta altrettanto certo l'esito del trade-off tra consumo di welfare e tasso di partecipazione.
Inoltre, il benessere di una società non si misura solo con le variabili economiche, il benessere è un concetto ampio che include la qualità della vita degli individui. Se le attuali casalinghe andassero a lavorare fuori casa, qualcun altro dovrebbe sostituirle nel lavoro di cura dei figli e di aiuto ai genitori anziani. Certo si dovrebbero potenziare le strutture di servizio esterne come si è detto sopra, ma l'occupazione delle donne, soprattutto se a full-time, può avere effetti controproducenti in termini di sviluppo socio-emotivo e cognitivo dei figli. Inoltre, la qualità della vita degli anziani accuditi dalla famiglia piuttosto che dalle strutture residenziali è molto probabilmente migliore. La soluzione delle assistenti domiciliari immigrate non sembra essere sempre una buona soluzione, non solo perchè si crea così un segmento marginale dell'occupazione femminile seppure immigrata, ma anche perchè il lavoro di cura agli anziani rappresenta spesso per queste lavoratrici un ripiego in attesa di un'occupazione con maggiori prospettive di realizzazione personale.
È chiaro che ad ognuna di queste affermazioni si può controbattere portando altre argomentazioni sostenute dall'ampia ricerca italiana e internazionale che sul tema dell'occupazione femminile si è sviluppata in questi ultimi anni1.
I punti di vista sui quali discutere sul tema delle implicazioni positive e negative derivanti dall'aumento dell'occupazione delle donne sono diversi, affrontare il tema significa mettere a confronto più discipline dall'economia alla pedagogia passando necessariamente per la sociologia.

Come indaghiamo

Noi qui cercheremo di introdurre la questione dell'occupazione delle donne attraverso la stesura di un dialogo con Luisa Rosti affrontando il tema sotto la lente delle ragioni economiche che sostengono l'obiettivo europeo di raggiungere la quota del 60% dell'occupazione femminile.

 

B. Tu Luisa sei una convinta sostenitrice della necessità di aumentare il tasso di occupazione femminile. Io non capisco bene i termini del problema perché non mi pare che la ragione risieda negli alti tassi di disoccupazione femminile, ma nei bassi tassi di occupazione il che significa nell'alto numero delle non forze lavoro e quindi delle casalinghe. Perchè dobbiamo spingere le donne casalinghe, che hanno scelto di restare fuori dal mercato del lavoro, ad andare a lavorare? È una questione di reddito delle famiglie?

R. No, non può essere soltanto una questione di reddito perchè gli economisti sanno bene che la produzione domestica vale tanto quanto il denaro sonante, cioè è altrettanto utile della produzione per il mercato; ad esempio Becker (1987, p. 285) scrive: "Le famiglie sono altrettanto importanti come produttori quanto lo sono come consumatori. Il loro ruolo primario é quello di fornire nuove generazioni producendo e crescendo i figli, ma é anche quello di aiuto reciproco tra i membri in caso di malattie, anzianità, disoccupazione, ed altre vicissitudini della vita". Pertanto, se il mercato fosse uno strumento allocativo efficiente delle risorse umane, non vi sarebbe ragione di distogliere le donne dalle attività che hanno liberamente e razionalmente scelto e che sono così necessarie per il benessere delle famiglie e della società. Ma poiché il mercato non riesce a produrre un'allocazione efficiente delle risorse umane a causa dell'imperfezione dell'informazione, che determina disoccupazione, discriminazione, segregazione, ecc., per correggere questa inefficienza servono opportuni interventi di politica economica2; in assenza di questi incentivi, infatti, molte donne possono razionalmente preferire il ruolo di casalinga ad un lavoro per il mercato così poco remunerato da non compensare l'utilità perduta del lavoro domestico e di cura.

 

B. Perché spingerle fuori casa migliorerebbe l'efficienza del sistema economico?

R. Vi sono molte ragioni: ad esempio, come tu stessa hai ricordato, accrescere il tasso di occupazione significa allargare la base impositiva del sistema fiscale su cui si fonda il sistema di protezione sociale, che attualmente è minacciato dalla crescita dei tassi di dipendenza senile (nel nostro paese tra i più elevati d'Europa). Inoltre, se le donne potessero tenere una partecipazione piena e non interrotta al mercato del lavoro nel corso della loro vita lavorativa potrebbero incrementare sensibilmente le loro retribuzioni e sviluppare interamente il potenziale del loro investimento in capitale umano. Attualmente le laureate hanno un tasso di rendimento del loro investimento in istruzione che è meno della metà di quello dei laureati, anche se la loro performance scolastica è migliore. E ancora: una partecipazione al mercato del lavoro meno condizionata dall'ineguale divisione delle responsabilità domestiche ridurrebbe la segregazione occupazionale3 e le sue negative conseguenze (concentrazione dell'occupazione femminile in poche professioni sovraffollate e sottovalutazione delle attività svolte in prevalenza da donne sia in termini retributivi che di prestigio sociale). Pertanto, a me sembra evidente che l'esclusione della maggior parte delle donne dalla maggior parte delle occupazioni costituisce uno spreco di talento e di risorse umane, e che questo spreco è un problema per le donne ma anche e soprattutto un problema per la società.

 

B. Le casalinghe sarebbero sprechi di talento?

R. Ho sostenuto di recente (Rosti 2003) che l'attuale marcata divisione del lavoro di genere (con gli uomini che svolgono gran parte del lavoro per il mercato e le donne che svolgono gran parte del lavoro domestico e di cura) può dar luogo ad una allocazione delle risorse socialmente inefficiente perché non consente di usare in modo ottimale il talento delle donne. Ho argomentato che la partecipazione femminile al mercato del lavoro deve essere incoraggiata proprio perché i percorsi di carriera sono lo strumento che la società usa per mettere "la persona giusta al posto giusto", cioè per realizzare l'allocazione efficiente del talento naturale degli agenti. Il talento è una risorsa scarsa nella società: se la sua allocazione non è ottimale, la crescita reale del sistema economico è inferiore a quella potenziale; è pertanto interesse generale (di donne e uomini) che gli individui di maggior talento siano abbinati alle posizioni apicali della gerarchia sociale.

 

B. Cosa intendi per talento?

R. Alcune persone possiedono una abilità innata o "talento naturale" per particolari attività come cantare o giocare al calcio; questo talento naturale è specifico, nel senso che offre a chi lo possiede un vantaggio comparato, cioè la possibilità di raggiungere livelli di eccellenza dedicandosi a queste attività invece che ad altre. Ma vi sono anche individui che, pur non avendo grandi abilità particolari, possiedono doti apprezzabili di intelligenza, energia, spirito di iniziativa, cioè un insieme di caratteristiche, definibili come "talento generale", che danno a coloro che ne sono dotati un vantaggio assoluto, cioè consentono loro di raggiungere posizioni apicali in qualsiasi attività decidano di intraprendere (Murphy, Shleifer e Vishny 1991, p. 504).

 

B. Come si misura il talento?

R. Purtroppo non vi è molto che gli economisti possano dire a tale proposito, perchè l'abilità innata è tipicamente "una variabile non misurata e non misurabile ... può non esservi alcun modo di ottenerne una misura diretta ... Sono stati fatti dei tentativi ... ma sfortunatamente queste misure di abilità sono sbagliate in linea di principio. Esse sono tipicamente misure di intelligenza; ma "abilità" nel senso rilevante del termine significa abilità a produrre beni, e non vi è alcuna ragione empirica di attendersi più di una debole correlazione tra abilità produttiva e intelligenza misurata da un test" (Arrow 1973, p. 134).

 

B. Allora diciamo: quali sono le circostanze in cui si rivela il talento?

R. Per esempio proviamo a pensare ad un concorso inteso come meccanismo di selezione. Per cominciare dobbiamo assumere due ipotesi: 1) che la dotazione individuale di talento sia uniformemente distribuita tra i due sessi, e 2) che il talento di cui ciascuno è dotato non sia immediatamente evidente a chiunque, ma si riveli solo in particolari circostanze. In tali circostanze, se le donne impiegano nel lavoro domestico e di cura una quantità di tempo e di energia maggiore di quella degli uomini, potranno erogare nella competizione per la carriera un impegno minore di quello degli uomini, e a parità di talento saranno sconfitte nella competizione per le posizioni apicali della gerarchia sociale. Questo spiega il fenomeno, osservato molto spesso nella realtà, della segregazione verticale: i dati mostrano infatti (Anker 1997) che, nonostante la crescente partecipazione degli ultimi decenni, le donne occupate restano ancora confinate ai bassi livelli della scala gerarchica, e svolgono lavori poco retribuiti, senza prospettive di carriera e di scarso prestigio sociale, ma compatibili con le responsabilità familiari (vicini al luogo di residenza, con orari flessibili, con incarichi di routine che non richiedano trasferimenti, e così via).
Meccanismi rivelatori del talento sono quindi tutte quelle competizioni che la letteratura economica contemporanea chiama tornei. Un torneo è una competizione il cui esito produce la classifica ordinale dei partecipanti (Lazear e Rosen, 1981): le posizioni apicali della classifica sono abbinate alle posizioni apicali della gerarchia. La teoria dimostra che le donne hanno un minor incentivo degli uomini a partecipare alla gara, date le regole della competizione. È importante sottolineare che le donne sono in equilibrio, rinunciando alla carriera; il loro tempo e il loro impegno sono allocati nell'uso più produttivo, e del loro talento socialmente male allocato non sono per ipotesi esse stesse consapevoli. La società, invece, non è in posizione ottimale, perché il talento della componente femminile della popolazione va sprecato, se le donne non partecipano ai tornei. Quindi è necessario un intervento di politica economica.

 

B. Mi pare di capire che occorra lavorare nei diversi ambiti delle politiche, del lavoro, economiche e sociali, tenendo presente anche i problemi derivanti dal depauperamento del capitale umano a seguito dell'allontanamento dal mercato del lavoro per assunti impegni familiari. Vi è anche da dire che in Italia il basso tasso di occupazione si accompagna a bassi tassi di natalità, pertanto le politiche del lavoro dovrebbero trovare forti connessioni con le politiche sociali. È facile incorrere in politiche contradditorie. Come ricorda la sociologa Chiara Saraceno in uno dei suoi scritti, la legge sui congedi parentali (legge 53/2000) riguarda solo il lavoro dipendente ed esclude i contratti di lavoro non standard (atipici) dove c'è una forte presenza di giovani uomini e donne. Quali sono secondo te le politiche e le misure che potrebbero favorire l'incremento della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro in Italia?

R. Ad esempio sono le politiche che incoraggiano la condivisione delle responsabilità del lavoro domestico e di cura tra uomini e donne e ricercano soluzioni istituzionali per agevolare la riconciliazione dell'impegno familiare con quello lavorativo. Le azioni, però, si riferiscono all'integrazione della parità in tutte le politiche (mainstreaming): quelle relative all'istruzione, alla formazione, alla cultura, alla scienza, ai mass media e allo sport. In linea di principio, queste politiche sono sempre ben accolte, perchè sono considerate "giuste" da un punto di vista etico, ma in pratica sono spesso ostacolate perchè ritenute socialmente troppo onerose; probabilmente, questa percezione deriva dal fatto che i costi delle politiche di pari opportunità sono immediatamente e facilmente misurabili (tu stessa li citavi all'inizio, facendo riferimento alla qualità della vita), mentre i benefici si concretizzano solo nel lungo periodo. Contrariamente a quanto spesso si ritiene, comunque, uno studio recente della Commissione Europea (Rubery 1999) valuta il beneficio delle politiche di pari opportunità maggiore del costo, e sottolinea che il primo passo da compiere per attuarle è una drastica riforma del vigente sistema di welfare che lo renda più aderente alla moderna divisione sociale del lavoro, in cui entrambi i coniugi sono occupati e in cui la tipologia del rapporto contrattuale è molto più mutevole e variegata rispetto al passato.

Gruppo di lavoro

La presente sintesi è tratta dal Documento COSES n. 508/2003 a cura di Stefania Bragato e Rosti Luisa (docente di Economia del lavoro e di Economia di genere all'Università di Pavia).
Il contributo è stato pubblicato in "Donne e lavoro. Speciale occupazione femminile", supplemento al periodico trimestrale della Provincia di Venezia n.3, 2003, ed è disponibile per il downloaddownload (completo di riferimenti bibliografici).

Note

1. Sul dibattito in corso a livello italiano si vedano alcuni interventi nel sito www.lavoce.info e i materiali di ricerca presentati alla conferenza europea "European women at work" della fondazione Rodolfo Debenedetti nel giugno del 2003 ad Alghero.

2. Si può vedere in proposito Rosti 1995, 1996 e 1998.

3. La letteratura economica distingue due forme di segregazione occupazionale: la segregazione orizzontale, riferita alla concentrazione dell'occupazione femminile in un ristretto numero di settori e professioni, e la segregazione verticale, riferita alla concentrazione femminile ai livelli più bassi della scala gerarchica nell'ambito di una stessa occupazione. La presenza di segregazione orizzontale evidenzia l'esistenza di stereotipi sociali legati al genere che ostacola la flessibilità del mercato del lavoro (cioè il rapido adattamento ai cambiamenti esogeni); la presenza di segregazione verticale evidenzia l'esistenza di un "soffitto di cristallo" (glass ceiling) che ostacola il percorso di carriera delle donne e le esclude dalle posizioni apicali.

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