Idee per la città di mezzo

Comunicazione COSES al Forum di Mira 22 luglio 2005 di Isabella Scaramuzzi

Cosa indaghiamo

Mira in mezzo

[…] Nel Veneto si è elaborata […] una forma o modello di città originale. Non parlo solo di Venezia […] condizioni geografiche e vocazione mercantile volevano che tutto restasse cittadino […] una città di tessuto uniforme variato solamente da punti di maggiore spicco.
[..] Se il Brenta con il suo carico di fango e sabbia, non fosse stato trasformato, la laguna non esisterebbe più […] così il paesaggio veneto è quasi interamente un paesaggio fatto. […] Sul Brenta ridotto a canale si allinearono le ville, trasformandolo per un certo verso in una arteria cittadina […] E tuttavia campestre, agreste; illustrazione della doppia vocazione veneta, la campagna nella città, la città nella campagna, società e solitudine, non separatamente […] è, diffusa nei campi, la regola urbanistica della metropoli, e il tessuto "continuo e omogeneo" […] cittadino dilaga nei campi, distinguendosi dalla città solo perché l'ordito diventa più largo.
La campagna si fa città; ma si potrebbe altrettanto dire che la città si fa campagna. […] Si direbbe che le città mostrino in forma condensata ciò che fuori di esse appare in forma diluita.

PIOVENE G. 1962 Introduzione al Veneto, in TUTTITALIA Istituto Geografico De Agostini Novara, Firenze Edizioni Sadea Sansoni


Da tempo è in corso una riflessione sulla cosiddetta città diffusa centro veneta o, come si dice talvolta, sull'area metropolitana "attorno a Venezia", o tra Venezia e Padova, o sulla Patreve se consideriamo anche Treviso.
La cosa certa è che Mira sta in mezzo a tutto questo. Per questo parliamo di città di mezzo.
Più in complesso, intendiamo con città di mezzo quel qualcosa in cui viviamo, dalla forma e dal destino incerti: un ibrido difficile persino da definire lessicalmente, tanto che le abbiamo dato molti nomi (per esempio città senza bordi o metropoli elusiva o rururbanizzazione o in-between city la città che sta di mezzo ad altre due) senza trovarne uno che descrivesse davvero la cosa in cui passiamo la nostra vita.
Mira, non da sola, sta in mezzo a due province (forse tre), a due capoluoghi la Serenissima e la Dottoressa, in mezzo al Veneto; in mezzo tra Barcelona e Kiev, Cataluna ed Ucraina; in mezzo al sistema padano-danubiano; in mezzo ad una transizione economica, paesaggistica e sociale; in mezzo tra sviluppo e declino, tra crescita e sostenibilità; in mezzo tra città e campagna residua, in mezzo a un piccolo mondo antico che muore e ad una losangeles che nasce (secondo la suggestione di Marco Paolini, che è diventato artista in mezzo, tra Belluno e Mira); in mezzo tra generazioni native e immigrati che prima venivano da molto vicino e adesso vengono da molto lontano; in mezzo tra metalmezzadri del dopoguerra e agrituristi del postmoderno; in mezzo ai residenti e ai turisti; in mezzo a ville e capannoni; in mezzo ad acqua e terra; in mezzo al crocevia dei corridoi europei, SFMR, Passante e Romea (che sembrano personaggi del Ruzante, se ci pensate).
In mezzo.
E per non restare presa in mezzo, Mira deve usare il proprio Piano di assetto del Territorio, il PAT. Disegnare e governare le città di mezzo è la sfida all'urbanistica del futuro. Si gioca qui ed ora, a Mira.
Il mio vuole essere un contributo di analisi che sostiene qualche ipotesi per il futuro.


In mezzo c'era la campagna

[…] stavolta racconto una geografia e non una storia. […] non c'è niente di normale in questo paesaggio che è cambiato più negli ultimi cinquant'anni di quanto avesse fatto prima in cinquanta secoli. […] le città non sono mai cresciute tutte insieme, tutte in un colpo, tutte in un luogo, tutte nell'arco di una sola generazione. Nessuno sguardo umano prima di questi cinquant'anni ha potuto misurare di persona una modificazione così radicale dello spazio, delle condizioni di vita e di lavoro.

PAOLINI M. 1999 Bestiario Veneto, Parole Mate, Edizioni Biblioteca dell'Immagine, Pordenone. Citato in MARSON A. 2001 Barba Zuchon Town. Un'urbanista alle prese col Nordest, Franco Angeli Milano


Secondo i dati di confronto tra Censimento del 1991 e del 2001 (Pedenzini et al. 2005, COSES Doc. n. 641/05), Mira appartiene ad un gruppo di Comuni che, pur non registrando aumento di popolazione residente (la quiete dopo la tempesta, secondo Pedenzini), vede diminuire case sparse e nuclei e aumentare il peso, la dimensione e la forma dei cosiddetti centri: le parti "urbane" della "campagna".
I cittadini di Mira penseranno, immediatemente, che le fredde statistiche dell'Istat non rappresentano i caldi sentimenti di appartenenza alle località dentro il comune, alle frazioni, alle Ca' dai vari toponimi cari a ciascun nativo: chi è di Cà Tuzzato non è di Piazza Vecchia, chi è di Tresievoli non è di Borbiago.
Come scrive Eugenio Turri (2001), è difficile conciliare la valle (pedemontana o lagunare) da cui abbiamo origine, con la megalopoli padana in cui abitiamo, con il Nordest in cui produciamo, l'Europa nella quale studiamo e facciamo turismo e il villagio globale di Internet? Questa è la sfida.
Quello che succede è che in 50 anni, dal 1951 al 2001, Mira ha addensato i propri abitanti, crescendo del 37%, riducendo il peso di chi risiede in case sparse dal 30 al 6% sul totale (la popolazione delle case sparse cala del 72%). I nuclei abitati che nell'immediato dopoguerra erano 54 (toponimi di campagna, riferiti al raggruppamento di Cà, di ville e palazzi, di campi e di canali) sono 28 nel 2001, per effetto di accorpamenti con i centri maggiori (-48% in 50 anni).
La città diffusa si è mangiata mezza campagna.
È un fenomeno cominciato nel dopoguerra e che non si è ancora esaurito, anche se si è esaurita la crescita demografica, prorompente nei decenni Sessanta e Settanta (+16 e +12%). Tra 1991 e 2001 i residenti totali di Mira calano del 3%.
Una crescita che, come sottolinea Francesco Indovina (DAEST, 1990) è parimenti derivata dalla città madre che va fuori di sé (nella prima cintura ad Oriago e Spinea) e da un motore endogeno che attrae dalla campagna nei nuclei e nei centri abitati, attivando processi demografici sia sociali che naturali.


DOPO LA GUERRA

Nel territorio di Mira, al 1951 c'erano ben 54 località abitate con 7.696 residenti in case sparse su 25.716. I principali centri risultavano Gambarare (sud), Mira Taglio e Oriago (sul naviglio), Marano (nord), Malcontenta (verso la Laguna Mondo), Borbiago (nord). La popolazione in case sparse era poco meno del 30% e moltissimi toponimi (es. Riscossa, Castagnara, Molin Rotto) rappresentavano, ciascuno, meno dello 0.2% della popolazione comunale: poco più che case sparse.
Nel 1961 la popolazione è cresciuta dell'8%, ma quella in case sparse è calata del 20%. L'insediamento ha perduto 4 nuclei (saldo di 10 che si aggregano e di 7 che si evidenziano: tra i primi ville e palazzi, tra i secondi Seriola e Brentelle lungo i canali). Le case sparse pesano il 22% e le frazioni maggiori di Marano (Tresievoli e Cà Battaggia, Amolaro…), Malcontenta (e Malcanton) e Gambarare (Cà Tuzzato e Cà Bastianello, Molin Rotto) perdono peso, mentre guadagna Piazza Vecchia che sostituisce (per l'Istat) il toponimo storico di Gambarare.
Ma la storia di copertina del decennio è senz'altro Oriago che cresce del 65%, seguito da Mira Taglio col 17%. Chiaramente la città madre Serenissima sta andando fuori di sé e incontra l'inurbamento dalle campagne: tutto il più vicino possibile a Porto Marghera, agente chimico della lievitazione demografica.


AGENTE CHIMICO DEMOGRAFICO

Al 1971 abbiamo solo 41 località abitate con una riduzione di 10 unità, saldo di 11 accorpamenti (molte Cà e Riscossa) e di 1 nuovo toponimo (una ). Le case sparse calano del 32% mentre la popolazione cresce del 16%. Oriago sta raggiungendo Mira Taglio come peso sul totale comunale: accentrano il 29% e 32% della popolazione comunale; si rafforzano anche Borbiago e Malcontenta, mentre Piazza Vecchia e Marano perdono leggermente di peso. La in-between city rivela tutta la propria forza, tra Laguna Mondo e centro del Veneto.
Nel 1981 si registra l'accorpamento massimo di nuclei, mentre la popolazione cresce ancora del 12% e le case sparse calano ancora del 30%: è il colpo finale alla campagna urbanizzata che diventa città diffusa, (Indovina, 1990).
Abbiamo soltanto 15 località abitate e il rapporto tra popolazione concentrata e popolazione in case sparse è di 11 a 1 (32.9 mila abitanti contro 2.9 mila) mentre era 2 a 1 nel 1951 (18 mila abitanti contro 7.7 mila). Il comune di Mira "perde" 25 località distinte, che si sono saldate nel continuum urbano: Piazza Vecchia e Gambarare diventano un unico centro (che perde peso); restano isolati solo i nuclei di Dogaletto, Curano, Molin Rotto, destinati a resistere fino al 2001. Marano si è già compattata al 1971, e restano isolati soltanto Tresievoli, Amolaro e qualche .
Malpaga è il centro distinto più consistente, con oltre 500 residenti.
Mira Taglio fa l'en plein anche perché l'Istat, nei dati 1981, accorpa in questo "centro" frazioni staccate quali Malcontenta, Borbiago e Oriago e altri 10 nuclei (per lo più delle Cà) compresi Valmarana, Seriola, Sabbiona. Resistono isolati nuclei minori (denominati Cà).
Mi si osserverà che sono "artifizi statistici" e che la percezione dei cittadini è ancora quella di luoghi distinti (Malcontenta non è Mira Taglio): sta di fatto che la continuità lineare del costruito è sempre più marcata, numericamente incontestabile.
Nelle case sparse resiste l'8% degli abitanti (era il 30% nel 1951), Mira Taglio (forte dell'annessione statistica che abbiamo spiegato sopra) rappresenta il 73% della popolazione comunale.
La città diffusa, di forma lineare (Torres, DAEST 1990), si è consolidata, tra il Taglio e la Laguna Mondo (Bettin, 1998). Elementi segnici del territorio (Dorigo, 1991) che durano, a proposito di durevolezza dello sviluppo (Dal Pozzolo 2001, Marson 2001).


VILLETTE E CAPANNONI

Nel 1991 registriamo alcuni fenomeni di controtendenza: indizi di nuove forze territoriali.
La popolazione si stabilizza (+ 2%) ma si inverte la dinamica delle case sparse che per la prima volta dopo 40 anni, guadagnano residenti (+5%). È stato osservato da Indovina e da Torres (1990), che nasce, proprio negli anni Ottanta, un nuovo tipo di casa sparsa, frutto delle lottizzazioni residenziali destinate alla "classe media", le quali modificano la tipologia dell'abitazione isolata "contadina" e cambiano il volto della città diffusa: sono le villette di cui racconta Paolini, abbinandole ai capannoni. Perché la città diffonde anche le proprie produzioni, il polo chimico vive un declino che è parallelo al boom del cosiddetto modello nordestino. Anche per la manifattura come per l'abitazione la città madre "va fuori di sé" (e perde dominanza?).
Nei capannoni, come raccontano Marson (2001) e Di Monte (Monitor Coses, 2001), non ci sono soltanto produzioni ma anche (soprattutto?) merci in vendita, magazzini e commerci. Siamo in mezzo alle merci, ma di questo diremo fra poco.
Riprende a crescere anche il numero dei nuclei: da 15 si risale a 27: ne nascono 13 di nuovi (ne sparisce 1): Moranzani, Fossadonne (un vecchissimo toponimo di Borbiago), 6 Cà, e così via. 10 su 13 sono "legati" al cuore della città lineare (Mira Taglio, Oriago, Borbiago).
Ieri, al censimento 2001, la popolazione di Mira comune risultava stagnante (cala dal 1991 di 3 punti percentuali e si attesta a 35.355 persone): in case sparse abita ancora il 6%, con un rapporto di 15 a 1 tra cittadini e campagnoli (mi si perdoni la forzatura).
Il numero di residenti in case sparse ha ripreso a calare vertiginosamente, del 29%: possiamo ipotizzare che le lottizzazioni e le villette stiano a loro volta "accorpandosi" alla città diffusa?
Piazza Vecchia (con Gambarare) è, anche lei, accorpata dall'Istat a Mira Taglio che pesa l'85% sulla popolazione comunale; resiste soltanto Dogaletto, come centro isolato, con 407 anime "lagunari".
Di qualche peso risultano, infine, i nuclei di Curano, isolato a sud di Piazza Vecchia, e di Malpaga ancora isolato tra Borbiago e Fornase (frazione di Spinea, l'altro comune dove Venezia è "filtrata" nei decenni dell'esodo).
Segue Tresievoli, riferibile a Marano (tra Marano, Borbiago e Crea sempre in comune di Spinea). Molin Rotto e Curano costituiscono uno dei bracci, secondo la definizione di Marco Torres (1990), che allungano la città lineare brentana verso sud.


STORIA E GEOGRAFIA

I numeri di questa storia, durata 50 anni, ci dicono anche che Mira sta in mezzo, tra campagna e Laguna Mondo: mentre la campagna ha ceduto alla crescita della città - più a nord-est, che a sud - sembra che la laguna sia rimasta gloriosamente "distaccata", un mondo a parte?
Non solo unica salvezza possibile per una impronta ecologica drammatica (la città diffusa consuma molte più risorse di quante non siano riproducibili) ma a salvaguardia di un paesaggio caratteristico e unico, di un valore territoriale inestimabile.
La storia di Mira non è, invece, unica: ciò che è avvenuto alle 54 località "campagnole" del 1951 avviene in tutta l'area di mezzo, tra Venezia e Padova (e Treviso). La città diffusa è, oggi, il "luogo" dove vive la maggior parte degli abitanti provinciali. È un unicum urbano, in cui devono riacquistare senso quartieri che si riferiscono alle ex frazioni o addirittura a vecchi municipi ottocenteschi. Il futuro non deve, per forza, trafiggere il cuore, cioè generare i cosiddetti non-luoghi periferici: dobbiamo "guidarlo" a riconoscere le centralità che, per noi cittadini diffusi, sono o possono diventare identitarie.
E si pone una questione cruciale: questa città non è quella che conosciamo dai secoli dei secoli, è difficile da guidare Comune per Comune (Dal Pozzolo, 2002).
La campagna, quello spazio caratteristico, che divideva i nuclei e ospitava case sparse, deve funzionare soltanto come vuoto residuo da immettere liberamente nel mercato delle costruzioni o dobbiamo progettarne un futuro positivo: come paesaggio, come ecoriserva, come produzione pregiata, come servizio del tempo libero, come prodotto turistico, come luogo ameno per l'accoglienza di nuovi abitanti stabili o temporanei?
La legge urbanistica francese che istituisce i pays (insiemi di comuni rurali) sancisce per lo spazio rurale lo statuto di servizio pubblico, pianificato da un apposito schema a livello nazionale, insieme a servizi quali la scuola, l'energia, la logistica.
Cosa succederà dello spazio rurale in mezzo, quando il crocevia dei corridoi e dei passanti esplicherà davvero il proprio effetto sui flussi e sul valore dei suoli e traccerà un nuovo elemento segnico destinato a durare: "limite" alla città senza bordi?
Ma di Passante e Romea, qui, ci raccontano altri.


In mezzo ai flussi

La prima corsa partiva di buon mattino dalla scuola elementare di Giare, il capolinea. Era la stessa autocorriera giunta la sera precedente. Aveva effettuato il percorso Venezia-Giare carica degli operai turnisti che alle 22 erano usciti dagli stabilimenti di Porto Marghera. Tutta la notte vuota e ferma per ripartire il mattino seguente. Questo era l'itinerario: Giare-PiazzaVecchia-Dogaletto-via Foscara-Malcontenta-Cà Emiliani (la Rana)-Marghera-Zona Industriale. Al ritorno stesso percorso nella direzione inversa. Alla fine del 1950 l'itinerario subì una variazione: Giare-PiazzaVecchia-Porto Menai-via Novissimo Argine Sinistro-Mira-Taglio-Mira Porte-Oriago-Marghera-Mestre-Venezia e viceversa.

MION G. 2003 Mira di Ieri. Anni '40-'60 dalla guerra alla rinascita, Duck Edizioni Libreria Riviera SaS Mira


Mira è sempre appartenuta alla cosiddetta "grande Venezia" (Scaramuzzi, 2004): i pendolari per motivi di lavoro e di studio, diretti al Capoluogo, ne hanno sempre fatto una della prime "tributarie", in termini di popolazione giornaliera della città madre (notare bene che senza tale componente di popolazione la Dominante non funzionerebbe). Gli "attivi in uscita" andavano a lavorare, segnatamente verso Marghera (fino al 1981) e nel terziario urbano lagunare e di terraferma; gli studenti frequentavano le scuole superiori. Nel 2001 Mira è il primo Comune che "dà" a Venezia pendolari in entrata (oltre 6 mila unità) davanti a Spinea (5 mila unità). Naturalmente, se si pesano questi pendolari sui residenti Mira è meno "tributaria" di Spinea. Nel cosiddetto SUV sistema urbano veneziano, almeno fino al 1991, Spinea, Martellago, Marcon e Mira sono le prime corone metropolitane, quasi-venezia: forniscono la popolazione giornaliera che "fa", insieme a quella stabile e ai foresti, la città.
Ma Mira è in-between, cioè è tributaria anche verso Padova e verso Dolo (è l'unico Comune della Provincia che "dà" a tre destinazioni).
La diffusione dell'urbanità tuttavia ha funzionato anche come riequilibratore di questa dipendenza e secondo i primissimi dati del Censimento 2001 (sui quali Pedenzini e Colladel stanno lavorando al COSES) tutti i comuni di cintura hanno ridotto il proprio flusso diretto al capoluogo: Venezia è meno centrale nella metropoli proprio perché posti di lavoro e servizi (le scuole e i lavoratori dei servizi) hanno seguito le residenze "in campagna". Già nel 1990 Indovina osservava che la casa aveva portato con sè popolazioni dai geni urbani, che esprimevano bisogni urbani e hanno innescato motori di sviluppo qualitativamente urbani. Prima di tutto il commercio, di cui parleremo fra poco.
Per quanto riguarda le scuole "alte" (una funzione troppo trascurata nella gestione del territorio e anche qui potremmo imparare molto dai francesi), Mira continua ad essere debitrice di pendolari sia a Venezia (primo flusso in uscita nel 2001, con 564 studenti medi superiori), sia a Dolo (323), sia a Mirano (284). È anche, però, l'unico comune della città di mezzo ad avere una sede universitaria: Villa Mocenigo, a Oriago, ospita la Laurea e il Master di primo livello in Economia del Turismo di Cà Foscari. Localizzazione, sia detto per inciso da chi conosce bene studenti, prodotti formativi e attività di ricerca internazionale, che andrebbe valorizzata assai maggiormente.
L'irresistibile funzione residenziale della campagna tende a generare un territorio dove l'insediamento periurbano (una prosecuzione della città stessa, fuori città ma senza campagna come scrive Del Pozzolo, la città che va fuori di sé) si addensa a sua volta anche per la preesistenza di frazioni e paesi molto frequenti, "contro" i quali la diffusione "va a sbattere".
Non è facile, da noi, trovare il vero suburbio: siamo comunque in "paese". Tra Padova, Venezia, Treviso (nella Patreve) siamo in una via di mezzo: campagna periurbana ne è rimasta poca e le aree urbane si toccano attraverso paesi e frazioni, che si addensano.
L'onda urbana si ferma, fa risacca. Avviene quello strano miracolo per cui la città, fuori di sé, riproduce città. Una forza irresistibile degli insediamenti.
Un altro elemento cruciale emerge: qua in mezzo non siamo capitati soltanto per effetto (fisiologico) di un esodo metropolitano, di un gran rifiuto della Dominante; ci siamo anche perché abbiamo scelto di abitare qui e in questi modi, perché abbiamo costruito (o autocostruito) sulla terra dei padri, vogliamo restare fuori città, siamo abituati a starci, ci piace.
Anna Marson scrive (2001) che ormai ci sono più veneziani DOC che vivono in provincia di quanti non siano "sopravvissuti" nella città natale, mentre nella città lagunare abitano molti veneziani naturalizzati, non nativi. Per esperienza personale e diretta so che quando un veneziano DOC smette di sniffare l'aria del pesce (come Tiziano Scarpa definisce la città antica lagunare) muta sensibilmente, ma porta con sé il gene urbano (e di che città!), contamina la campagna, difficilmente torna indietro.
La prima colonizzazione delle campagne Venezia la fece con le ville. Questa l'ha fatta coi cittadini, è diverso.
In una recente riflessione su Venezia (L'Architettura Cronache e storia 2004) ho ipotizzato che, nel cosiddetto SUV (il sistema urbano attorno a Venezia, costituito al 1991 da 15 Comuni), la densità caratteristica delle città sia sostituita dalla mobilità, come carattere costitutivo e distintivo: la città diffusa ha una forma mobile.
Questa strana morfologia, che sicuramente non convince fino in fondo gli amanti irriducibili della città (storica? antica?) e che ha dei costi elevatissimi (più alti di quelli della congestione e delle rendite centrali?), è una sorta di one-to-one city: una città per ciascun individuo, o famiglia, la cui forma si costruisce sulla base della quotidiana e personale esperienza d'uso.
Concedetemi un'altra nota personale: quando sono arrivata nella città della Riviera (tra 1981 e 1991) e andavo a fare le compere, mi chiedevano sempre se avevo la macchina vicina. Io rispondevo "sono a piedi" e mi guardavano come un extraterrestre.
Ed è il momento di parlare di strade.


La via di mezzo

[…] le strade della città cominciano a valere esclusivamente perché portano da qui a lì, e da lì a là, e non come luoghi dove c'è la gente che sta, abita, lavora, fa compere, va in chiesa e così via. […] come se la questione del traffico fosse solo una questione di dove far passare le macchine per diminuire i tempi e razionalizzare i modi di percorrenza e non, invece, una questione di come rendere abitabili e vivibili delle strade dove la gente abita […] ha dei cortili o dei giardini fronte strada, deve dormire di notte con livelli di rumore accettabile. […] Invece bisognava fare una politica […] gestire la città a partire dai contesti abitativi e lavorativi e adoperarsi perché in primo luogo ci si potesse abitare nella città e in secondo luogo ci si potesse muovere: ma non muovere astrattamente, come elettroni impazziti in un sistema nervoso fine a sé stesso, bensì muovere come funzione del vivere, come parte del vivere. In fin dei conti, per la maggior parte del tempo noi stiamo, lo stare è la nostra dimensione molto più dell'andare, no?

MOZZI G. 1999 Fantasmi e fughe Einaudi Stile Libero

[…] Ho un quieto desiderio d'esser strade. Essere, percorrere, restare.

SACERDOTI G. 1978 Fabbrica Minima e Minore


Secondo l'Istat il numero di spostamenti abituali tra 1991 e 2001 sembra diminuito (dati provvisori! Maneggiare con cautela): gli esperti spiegano che potrebbe anche essere vero, poiché l'incremento del traffico è attribuibile più che al numero assoluto alla modifica dei modi di viaggio (es. 1 persona per 1 auto) e soprattutto alla dispersione delle origini-destinazioni: i viaggi non abituali che appunto esulano dal pendolarismo.
Secondo l'Insee (Istat Francese) solo il 30% degli spostamenti osservati nelle grandi agglomerazioni sono legati al lavoro o agli studi! Il 70% sono legati ai "capricci" degli abitanti, per nulla costretti: ed è chiaro che chi non dispone di un auto per poter soddisfare questi "capricci" si sente prigioniero, né può essere soddisfatto dai mezzi pubblici.
Sempre l'Istat (dati provvisori 2001) evidenzia e conferma la tendenza crescente all'uso dell'auto one-to-one car, per gli spostamenti abituali quotidiani, ma tra i capoluoghi di provincia del Veneto, Venezia e le sue cinture restano una anomalia per l'uso (pur calante) del cosiddetto TPL trasporto pubblico locale. Un primato davvero positivo che dobbiamo ad ACTV (per una volta ne parliamo bene!) ovvero al sistema ormai storico che ha "pensato insieme" un servizio metropolitano o da città diffusa.
Nei suggerimenti per politiche adeguate alla dimensione delle aires urbaines, in Francia i trasporti collettivi detengono la prima posizione, seguiti dal tema della intercomunalità. Non voglio insistere per due motivi: perché non credo che serva l'Ente Città Metropolitana, diciamo che basterebbe una politica condivisa di ACTV e di SFMR; perché i PATI e il PTCP servono proprio a questo. Sono due temi delicati, di politica istituzionale, che preferisco lasciare ad altri.
Parlo della strada da un altro punto di vista, quello dei cittadini di mezzo.
Uno dei principali problemi della città di mezzo, dei suoi quartieri come li ho chiamati, è quello di introdurre una rete di "strade urbane" in luoghi che si sono sviluppati attorno alle automobili e ai parcheggi: dove, cioè la funzione stradale è molto lontana da quella di spazio pubblico "abitato".
I dati costruiti per il PRUSST della Riviera (andrebbero aggiornati ma la Provincia lo può fare in un attimo) confermano le percezioni di noi che viviamo qui. Io conto i mezzi che passano sotto le mie finestre, nella mia strada residenziale, la SR11!, il corridoio Barcelona-Kiev.
Vi garantisco che avere il salotto sul corridoio non è più come una volta.
Nel mio corridoio passano oltre 43 mila mezzi al giorno (in un paese che non arriva a 16 mila anime). Mira, oltre a stare sullo stesso corridoio, ne ha anche un altro, la Romea SS309, che le porta per casa altri 36 mila mezzi.
Fanno 79 mila per 35 mila "bipedi": niente di sostenibile!
Poi ci sono le strade provinciali, vera nervatura urbana della città diffusa. Anche loro hanno una portata di traffico poco cittadina, per niente da spazio pubblico abitato. Provate ad andare in bicicletta sulla cosidetta Brenta Bassa o lungo la Seriola: si chiama turismo estremo, nel senso che è facile provare brividi da Camel Trophy, da Paris-Dakar.
La SP13, verso sud, porta 5.300 mezzi per giorno.
La città diffusa è attraversata da strade, più che essere servita da strade.
E invece, per citare Giorgio Gaber, i cittadini devono riprendersi le strade (C'è solo la Strada, 1974): la strada è l'unica salvezza, strade e piazze.
Mira e Dolo hanno fatto, finalmente!, interventi di sistemazione dei lungo-naviglio, i waterfront della città diffusa: hanno arredato il corridoio Barcelona-Kiev. Interventi di buon governo urbano che cambiano la percezione e il rapporto dei cittadini con la strada.
Quando a Dolo è stata chiusa la SS11 per fare il mercato sembrava la pubblicità del Mulino Bianco, con i prati sotto la Torre di Pisa e in Canal Grande: un fantastico assurdo di cui dire grazie (una volta tanto!) al Sindaco. Le politiche urbane nei confronti del waterfront, in tutte le grandi capitali europee e globali, la dicono lunga su quanto "valga" questo tipo di intervento. Il successo di Paris-Plage testimonia di quanta voglia ci sia in ambiente urbano di stare fuori, trovarsi, darsi buon tempo libero, godersi la propria città: da residenti in una città che ha 12 milioni di turisti.
Chissà che i residenti non trovino, in questo ambiente, un agente naturale di sviluppo: il gene squisitamente urbano del passeggio, la flanerie, il dolce far niente, guardando le vetrine, in mezzo alla gente.
Già!, guardare le vetrine, ed è ora di parlare delle merci.


In mezzo alle merci

Perché, a fianco delle residenze, nella città di mezzo si sono modificate (moltissimo) le localizzazioni produttive e soprattutto terziarie. Quella che era una funzione talmente urbana da "generare" le città (i mercati), il commercio, è stata una delle prime a "seguire" la popolazione in campagna.
Non mi piace per niente la definizione dei centri commerciali come non luoghi, la trovo sbagliata sia urbanisticamente che sociologicamente, ma non è questo il momento di spiegare perché.
Mi attengo a qualche dato.
Nei comuni del SUV, il sistema urbano veneziano (15 comuni al 1991), vi è una alta correlazione tra indice di "tributo" alla città madre (in termini di pendolari) e dotazione commerciale al 2001: significa che la città di mezzo è "centrifuga" in termini di attivi (lo era al 1991, i dati del 2001 a questa scala non sono ancora elaborati) ma è "contenuta" in termini di servizi primari alla residenza, anzi le due variabili procedono con lo stesso segno e "correlate" (se aumenta una aumenta l'altra e viceversa). Interessante: la città diffusa quindi mantiene dipendenze lavorative ma è indipendente nel binomio abitazioni-servizi.
Mira non ha avuto le performance di Marcon (il commercio cresce del 10% contro l'88%) ma è sopra la media provinciale (+4%) e si comporta meglio di Dolo (storico capoluogo di mandamento commerciale) che perde il 19%. Teniamo conto che la popolazione residente servita è in calo (-3%).
E, forse proprio perché è città di mezzo, Mira non ha casi eclatanti di centri periferici, mentre alcune innovazioni che risalgono già al decennio Ottanta (e che all'epoca come tutte le novità generarono resistenze e malumori), sono perfettamente integrate nel tessuto urbano.
Anche a livello di grandi strutture (sopra i 2.500 mq.) Mira non ha la dotazione che potrebbe avere data la taglia demografica: non è un polo commerciale di riferimento, come possiamo dire di Portogruaro (che è di taglia demografica inferiore) anche se tra 1991 e 2001 "supera" Mirano nella graduatoria delle top ten provinciali. È invece "rimasta" dentro i canoni del commercio cittadino, diffuso: un altro carattere urbano che fa di Mira una città di mezzo, non un polo. Mira è il terzo comune della provincia per superficie in supermercati, segno che la distribuzione moderna non manca: quella diffusa, di prossimità, urbana.
In qualche caso avere indici "di mezzo", non svettare nelle classifiche dei primi per dotazione -per esempio di medie e grandi strutture di vendita- (Scaramuzzi, 2004 COEP2) e per crescita, può non essere uno svantaggio.
Il cosiddetto parco commerciale della Romea che si è, invece, molto rafforzato negli anni Novanta potrebbe in futuro svolgere quella funzione "urbanistica" del tutto contraria alla teoria dei non-luoghi: la tendenza degli ipermercati e dei cluster delle merci (come l'area di Panorama, quella di Auchan, il Valecenter) ad evolversi e a diventare agenti di uno sviluppo insediativo più complesso e diversificato, che tende a consolidare la città diffusa.
Poiché come abbiamo detto è difficile nella città di mezzo avere davvero localizzazione periferiche, che non abbiano in prossimità una frazione, un nucleo, un riferimento abitato, (un cimitero!), campi che nessuno coltiva più…ecco che la città si diffonde, congiunge, annette, ingloba.
I cosiddetti non luoghi non solo diventano luoghi dell'incontro e del flusso (sociologicamente luoghi centrali!) ma anche agenti di città diffusa, persino di residenze.


I turisti di mezzo

Devo aver già detto e scritto in ogni salsa che Mira non è una città turistica e il turismo non diventerà la sua economia portante o caratterizzante.
Può darsi che questo dispiaccia e anche che non sia vero, spesso mi sbaglio quando prevedo il futuro. Devo avere la sfera di cristallo appannata, non è un gran chè per un planner ma tant'è.
Credo fermanente che Mira e la città del Brenta debbano percorrere la via di un turismo sostenibile, o durevole come preferisco dire, nella doppia accezione:

Facciamo tesoro degli errori di Venezia, non portiamoli nella città diffusa: la città deve usare il turismo e non viceversa.
Oggi qui si è paralto delle ville, non serve aggiungere altro.
Villa Widmann, sulla quale davvero ho scritto lo scrivibile, è un emblema di come deve evolversi il turismo, in un dialogo tra le due comunità: quella nativa e quella temporanea e intermittente.
Il Festival delle Ville è stato un esempio di buona politica durevole per un tempo libero di qualità. Lo è il Teatro dei Leoni e quel progetto che rumega sul fondo di molte delle nostre coscienze, di "dare residenza" agli attori. Non è da poco che i sussiegosi Serenissimi si spostino "fin alla Mira" per vedere alcuni spettacoli teatrali: circuiti diversi dalla Biennale, certamente, ma che non sono servizi banali, da "periferia", fotocopie e surrogati della cultura alta, cascami.
Anzi, alcune tracce iniziate a Mira si stanno diffondendo ovunque (fin troppo).
È un buon esempio di turismo durevole la gastronomia che qui, in Riviera, è venuta prima del turismo, in una fase che tecnicamente si chiama di alternativa-casuale (quando si rivelano prodotti turistici spontanei, che attirano forestieri, in numero ridotto e con tipologie non convenzionali) e che noi dobbiamo guidare affinché evolva in alternativa-scelta, non in banale-subìto.
E in questo dobbiamo porre grande attenzione, maneggiare con cura, perché Mira è davvero in mezzo tra due colossi turistici: la Dominante (di tutti i mercati) e la Dottoressa, Padova, che è anche Santa grazie ad Antonio, il quale muove 5 milioni di comunioni per anno.
Mentre Venezia è nota come polo attrattore e pivot di una straordinaria regione turistica (si vedano, per tutti: Di Monte e Scaramuzzi, 1996; Scaramuzzi, UNESCO 2000; Scaramuzzi Rivista del Turismo TCI, 2001), Padova non è considerata destinazione turistica e, al contrario, potrebbe funzionare nell'area metropolitana come potente diversificatore di profili turistici, come origine di domanda metropolitana, come "integratore" in nuovi pacchetti regionali.
Altro elemento "basico" del turismo durevole è la navigazione sul Brenta (non per niente un naviglio), compatibilmente con il carico e con l'accoglienza e l'assistenza. Non voglio tediare i presenti con le questioni "spicciole" come le rive, le chiuse, gli approdi: turismo alternativo non è sinonimo di improvvisazione, casualità, spontaneismo. Al contrario, richiede per esere convincente e apprezato una ottima organizzazione.
Potrei essere molto provocatoria e citare come vie navigabili il Taglio Nuovissimo e l'Idrovia.
Mira, come dicevo in premessa, è in mezzo tra terra e acqua: questo era il titolo di uno dei primi progetti di sviluppo del turismo lagunare. La Laguna di Venezia non è nemmeno lontanamente valorizzata come prodotto turistico (per mille motivi, che non possiamo analizzare) e questa è una grande lacuna nelle proposte di alternative-scelte e di segmenti di mercato "sensibili", che costituiscono una delle punte emergenti del consumo turistico globale. L'uso durevole delle risorse territoriali non coincide con il non-uso (che spesso genera ab-usi): chiede, invece, che si disegnino funzioni attagliate alle caratteristiche e agli utenti. Spesso manca questo passaggio: una risorsa non è valida in sé ma in elazione ad un "conoscitore", a qualcuno che l'apprezza e la fruisce.
Naturalmente le alternative sono tante: tra diffondere darsene parcheggio per "cofani" di plastica e sviluppare eremi naturalistici per "quattro biologi" occorre valutare le destinazioni d'uso meno banali, meno onerose, più reversibili e caute (per usare aggettivi cari all'ecologia). Il bozzolo di ecomuseo di Villa Principe Pio (fatta salva la sua funzione educativa locale) deve diventare un ecomuseo davvero, cioè un nodo del sistema ecomuseale tra terra e mare: punto di partenza o di approdo di itinerari che facciano fruire dal vivo la ambiguità delle terre di Venezia, terre anfibie, in mezzo tra valli e ville.
Se esiste un assioma del turismo sostenibile è quello di coinvolgere gli abitanti: non serve attendere le future generazioni, è già molto pensare a quelle presenti, per esempio i giovani che possono "lavorare nel turismo". Se esiste un assioma dell'ecoturismo è quello di avere delle "guide su misura", accompagnatori esperti che "interpretino" il territorio, facendone apprezzare all'ospite i lati profondi, autentici. Ci sono state esperienze formative in questo senso e non ritorno sulla questione della Laurea di Oriago.



Il mediatore territoriale è una figura che potrebbe funzionare da interruttore per una imprenditoria giovanile e turistica alternativa-scelta: farci uscire dal campo delle pure teorie e delle aspettative fideistiche (intanto costruiamo l'albergo e poi si riempirà), entrare davvero nel disegno di uno sviluppo turistico adeguato ai mercati.
Dico anche che i giovani, gli studenti inclusi quelli di tipo professionale (es.artigiani), non devono essere pensati soltanto come "lavoratori" del turismo ma anche come "consumatori": sia quelli della città di mezzo che possono dare luogo ad escursionismo metropolitano -la Laguna come eccezionale parco urbano- sia quelli internazionali che viaggiano per studio-e-lavoro (i famosi stages) soprattutto fuori stagione e con modelli di interazione ospiti-ospitanti del tutto diversi da quelli del turista massivo. Nessuno ha mai disegnato, per la città di mezzo, seriamente un turismo "studentesco" legato alla presenza universitaria e agli scambi formativi. Se pensiamo globale ci accorgiamo che chi viene dall'India considera la Serenissima e la Dottoressa molto vicine a Mira, e viceversa.
I "turisti non per caso", con interessi speciali, portano con sé anche nuove forme di ricettività, che integrano quelle classiche, come gli hotel (che in Riviera ci sono e sono buoni) e i campeggi.
A Mira va anche il merito di aver voluto e realizzato l'unico ostello della città di mezzo. Un segno non trascurabile di alternativa-scelta. È positivo, dunque, lo sviluppo dei B&B che possono evolvere verso le gites ruraux francesi, con annessi i cosiddetti camping a la ferme, le aie ospitali.
È una mia vecchia idea il B&B: bed and boat, un pacchetto originale tra terra e acqua, appunto. Ma per la Riviera e la gronda lagunare dobbiamo pensare anche alle aree di sosta per chi transita, si sposta a tappe, si ferma a caso: i camperisti organizzati, per citare un altro segmento emergente del nomadismo globale.
Non torno sulla questione delle strade (cfr. nel sito Internet del COSES Le Strade Verdi) ma è fondamentale, nel disegno del PAT occuparsi, finalmente, delle strade verdi (le greenways), le provinciali dirette a sud, meno trafficate e le "alzaie" lungo i canali. Come scrive Giulio Mozzi, dovremmo deciderci ad usare le strade non solo "per andare da qua a là": il driving è una modalità di turismo da fuori stagione, lenta, leggera, paesaggistica, originale.
Mira deve togliersi di mezzo, dagli stereotipi che non pagheranno con buona moneta sui mercati del turismo futuro: deve, secondo me, fare davvero ecoturismo che non è turismo verde o della natura, ma turismo dei luoghi, di ciascun luogo, di questo luogo: della sua cultura che ha profondamente "artefatto" la sua natura. Ha fatto il paesaggio, come scriveva Piovene.
La Riviera nei primi 5 mesi del 2005 ha avuto una performance turistica buona: le presenze crescono del 12% e gli arrivi del 3%, rispetto allo stesso periodo del 2004, segno che sta aumentando anche il soggiorno medio, di poco supera le due notti. Forse dobbiamo lavorare perché ci siano motivi per restare una notte di più.
Resta comunque un sistema turistico minore, da 250.000 presenze diffuse in 6 comuni, con quasi 98 mila abitanti e 1.000 posti letto. Un rapporto sicuramente sostenibile.
Per il turismo della città di mezzo, infatti, più che di carico massimo si deve ragionare sulla soglia minima perché tale attività diventi una funzione economicamente positiva. Non per 1 o 10 operatori ma per il territorio.


Un futuro senza modelli. finalmente?

Nella città diffusa […] da una parte sono meno vistosi i processi di specializzazione spaziale, dall'altra tuttavia la complessità urbana appare, come dire diluita. Se così fosse, si sarebbe costretti a guardare in modo differente alcuni fenomeni di specializzazione territoriale, nel senso che mentre nella città concentrata essi appaiono come carenze, nella città diffusa in cidono in modo non necessariamente negativo sulla funzionalità e colloquialità urbana […] Se da una parte non c'è dubbio che la città concentrata, in qualsiasi contesto la si collochi (presa in sé stessa, inserita in un'area metropolitana, parte di una città diffusa) cede qualcosa, dall'altra va analizzato cosa cede. Si può dire che i servizi che si dislocano nelle zone extraurbane sono nella maggior parte banali […] Proprio perché il territorio costruito si adagia su un tessuto di antica urbanizzazione dove centri tradizionalmente di modesta dimensione diventano nodi significativi

INDOVINA F. 1990 La città diffusa, Venezia STRATEMA-DAEST

Ristrutturare e riordinare la metropoli elusiva è il grande progetto del nuovo secolo. Così come nel dopoguerra ci siamo dedicati al rinnovo urbano, nel XXI secolo dovremo occuparci delle città senza bordi.

R. Lang 2003


La mia prima proposta è l'ottimismo.
Non voglio dire qualcosa di destra, infatti mi rifaccio a Gramsci: il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà.
Una traccia di ottimismo per guardare alla città diffusa c'è già in Indovina, nel 1990: la città diffusa è meno complessa, meno specializzata, più colloquiale; ha una gerarchia meno severa grazie all'alta mobilità e accessibilità, attenua l'esclusione (Indovina, 1990 La città Diffusa, Stratema Daest, Venezia).
Il cittadino sempre più mobile cambia luogo incessantemente -un nomade stanziale direbbe Marco Paolini- sette giorni su sette e anche nottetempo, vive alla dimensione della agglomerazione intera, utilizzandola a suo piacimento, in modi sovente imprevedibili.
È ciò che Gianfranco Bettin descrive come la consapevolezza, normale, di un giovane provinciale per cui Venezia è una città mondiale: semplicemente è molto più accessibile di Parigi. In altre parole: non è necessario abitare a Venezia, basta poterci andare quando si ha voglia. E quel po' di vitalità che il pesce ha ritrovato negli ultimi anni viene forse anche dagli studenti veneti e dai giovani della città di mezzo che la "usano" come ritrovo, leiusure place, ricreazione e svago.

La prima cosa che farei, se fossi Mira, è chiedere ai cittadini come vivono questa città diffusa: una grande indagine che manca e che è giusto iniziare da qui, dalla porzione più importante della città di mezzo.
Indagherei i modi di vita.
Aiuterebbe gli amministratori a governare e gli urbanisti a costruire una città diversa, non quella che conosciamo ma quella che (forse) vogliamo.

La seconda cosa che farei è guardare il territorio attraverso segni che durano, durevoli: la Laguna Mondo, il Naviglio, la Seriola, le ville, i centri frazione e le piazze: essi sono allo stesso momento (anche se non allo stesso modo) segni per l'identità di chi ci abita e per l'attrazione di chi li visita.
Il turismo deve servire alla città, e non viceversa.
Questi segni durevoli sono anche "bordi che tengono", limiti allo sviluppo intesi come scelta di qualità e non come negazione: limiti al caso e allo spreco.

La terza cosa che farei è mettere lo spazio rurale alla ribalta: pensare lo sviluppo dei prossimi 10-20 anni rovesciando la logica della campagna come "materiale per costruire". Ripenserei le sue funzioni di produzione, paesaggio, grande infrastruttura di servizio: non banale dato che la città tradizionale non ce l'ha! Sulle carte della città di mezzo persiste un toponimo che vale più di molte spiegazioni per dare corpo al concetto di una campagna urbana: Cento Gombine. Proprio in queste sere nei telegiornali nazionali si è parlato di una nuova tendenza dei cittadini alla "raccolta diretta" dei prodotti ortofrutticoli nelle aziende agricole: non solo per questioni di caro prezzi.

La quarta cosa, ultima per oggi, è la convinzione che non esistono i non luoghi (del resto lo dice la parola stessa!). La cura del territorio non può essere imbalsamazione, negazione, rimozione, segregazione: un volto da copertina, con le ville del passato, e un volto duro e crudo, di tutti i giorni. Non possiamo rimuovere la modernità e "il lato oscuro del benessere".
Perché centomila forestieri devono avere il meglio di ville e giardini e i residenti della città di mezzo (che sono quasi dieci volte tanto, invece di stare 2 giorni ne stanno 365) devono tenersi scatoloni vuoti e campi affettati?
Credo che Mira abbia già iniziato a percorrere una propria via di mezzo: l'area Mira Lanza e quella ex-Marchi sono due risposte possibili (due aree dismesse recuperate agli abitanti: processi squisitamente cittadini!), ma la questione dei parchi commerciali, dei sottopassi, delle stazioni con parcheggia scambiatori, degli svincoli auotstradali si pone con altrettanta urgenza.
Fare un piano può significare disegnare la città di mezzo, come la vorremmo, senza aspettare che si manifesti spontaneamente con le sue disfunzioni.
Buon lavoro a tutti.


Consultazione del lavoro

La sintesi è tratta dal Documento COSES n. 653/05 "Idee per la città di mezzo - Comunicazione COSES al Forum di Mira 22 luglio 2005", di Isabella Scaramuzzi.
Foto di Paolo Berati e Marin Roberto.

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