Che ci sia ognun lo teme, cosa sia nessun lo sa
di Isabella Scaramuzzi
Situazioni simili al nodo ronco duro sono immediatamente rilevabili tra Oriago e Spinea (nodo fornase), a Marghera (nodo romea) tra Zelarino e Carpenedo (nodo terraglio), tra Dese e Marcon (nodo dese), tra Quarto e Casale (nodo quarto).
Se proseguiamo ad oriente, pur divaricandosi e ricongiungendosi due volte, le linee portanti del corridoio (ferrovia e autostrada) determinano altri nodi ugualmente evidenti: S.Dona-Noventa, Santo Stino, Portogruaro.
Su tutti questi nodi sono già presenti zone D, o ampiamente sviluppate (gli interporti, gli addensamenti economici vari) o fortemente interessate da nuovi progetti, noti e discussi.
Per richiamare alla memoria: il nodo terraglio è, insieme a quello romea, uno dei poli di sviluppo economico del comune capoluogo, che dall'inizio degli anni Ottanta, segnano e disegnano la terraferma (da Panorama e Auchan fino all'Ospedale). Marcon è, in provincia, il fenomeno assoluto delle trasformazioni insediative legate all'economia.
La cosiddetta AEV di Dese attende da 30 anni un insediamento importante e distintivo (dai tempi del polo agroalimentare, dove sarebbe dovuto andare l'Ortofrutticolo di via Torino). La zona D di Quarto è attiva e satura al 75%, mentre oltre il confine con Treviso i comuni di Mogliano e Casale non sono stati da meno nelle dinamiche insediative economiche.
Sempre per memoria ricordiamo lo sviluppo degli Interporti di Santo Stino e di Portogruaro, mentre i casi Outlet Noventa e East Gate di Portogruaro (ex Eni) tengono occupati i media tanto quanto Veneto City. L'effervescenza diffusa lungo l'intero corridoio, in ciascuno dei possibili nodi, cresce.
Per questo riflettiamo che Veneto City è un caso tra simili: segno che dobbiamo occuparci dell'insieme di queste proposte, già forti e numerose e destinate a non spegnersi per inerzia.
Si individua, dalle foto aeree, una tenaglia (forma non casuale?) la cui impugnatura chiude alcune residue aree verdi (già agricole) e una porzione rilevante di area ancora agricola, verso il nodo casello nove: qui si innesta la SP 12 Piovese che potrebbe condurre in pochi chilometri alla cosiddetta Città della Moda in comune di Fiesso, un intervento non dissimile da una city o da un waterfront (siamo sul Naviglio Brenta). I due manici della tenaglia di roncoduro sono ampiamente occupati da attività economiche varie (quello lungo la Pionca a Dolo e quello a nord tra Pianiga e Mirano). La testa della tenaglia (verso il casello della A4 e dentro la porta del Passante) è largamente occupata (Pianiga) o in cantiere: per l'innesto del Passante ma anche per l'edificazione di altri servizi di supporto al transito e alla persona (tra cui un grande autohotel quasi pronto).
Strette in questa tenaglia, le aree destinabili o appetibili dal progetto della City, attendono. Le pressioni sono sostanzialmente due: l'allargamento di quelli che chiamiamo capannoni - fino a ieri connotati positivamente come occasioni di lavoro, oggi connotati negativamente sotto ogni profilo - oppure una avventurosa terziarizzazione ad alto rango urbano.
In medium stat outlet.
Tra le possibili destinazioni d'uso paventate per roncoduro troviamo l'immancabile outlet: si vocifera sia questa la vera intenzione degli investitori. Voci di corridoio?!
Stando alle attività che oggi animano il nodo roncoduro, va notato che mostrano un indice di 'occupazione del suolo per addetti' molto elevata (una persona movimenta molti metri cubi di pallet; molti pallet mettono in strada molti mezzi; molti mezzi dei consumatori chiedono molti metri quadri di parcheggio così come molti spazi chiede il movimento di un TIR; un autohotel ha molte camere e molte auto dei clienti ma poco personale di accoglienza e servizio; un self service ha poco personale e ampi spazi di consumo). E che la integrazione tra produzione e consumo (la logistica) detta l'organizzazione degli spazi.
Quanto a questo un outlet appare molto meno astruso di una city: banalizzando, che cos'è se non un nuovo format di connessione tra magazzino - dove resterebbero le merci fine collezione o invendute - produttore (il marchio) e consumatore finale, tolto di mezzo il grossista? Che poi l'outlet si stia già evolvendo verso un mall o verso lo shoptainment lo assimila ai centri e ai parchi commerciali o tematici.
La visione del rendering è talmente suggestiva da non poter essere presa sul serio. Forse questo eccesso di presunzione (volo troppo alto) è una delle ragioni che spinge a guardare molto in basso, sotto: e a trovarci tutto ciò che di solito si sviluppa nel sottofondo, convenienze, accordi, cordate, speculazioni, cose a cui dire no per principio: sia che siano principi ideali, sia che si dica no perché si è fuori gioco o per non subirlo.
Lo stesso eccesso si riverbera nel titolo. La sua metà che presume di rivolgersi ad una intera regione, Veneto, che per storia e sostanza è e vuole essere policentrica, con capoluoghi forti sotto ogni profilo; la sua metà che evoca la city, errore infelice che rende risibile a priori un tentativo di qualificazione insediativa che, invece, potrebbe essere molto interessante per la marmellata esistente.
Se sfogliamo il catalogo del sistema venezia, prodotto per il MIPIM di Cannes, vediamo che di city ne vengono proposte tante, con ambizioni analoghe, funzioni equivalenti: terziario, business, offices, entertainment, theme park, mall, retail, hotellerie e catering, research and development, facilities. E naturalmente darsene e logistica. Il termine city ci porta, così, ad una riflessione sul determinato no delle due capitali venete: La Serenissima e la Dottoressa, per bocca dei suoi primi cittadini, Cacciari e Zanonato. L'opposizione ad una city nel nodo roncoduro non può non essere inquadrata (vedi punti 1-3) nella visione di sviluppo di altri nodi della provincia, segnatamente quelli di Marghera e Tessera, nonché della city di Padova ovest (nodo ikea) e perché no dei cospicui investimenti per rafforzare la city naturale di Treviso, per esempio con il quartiere universitario, nuovo di zecca.
Se è fumettistico immaginare una city di roncoduro, è sicuramente più credibile il progetto di ripolarizzare le capitali e le loro aree dismesse o vocate internazionalmente perché in prossimità di nodi unici, come il porto e l'aeroporto. Anche se i troppi rendering che abbiamo visto in questi anni, su Marghera City e su Tessera City potrebbero appartenere alla stessa comunicazione fantasmagorica.
Il ragionamento di promuovere aree dismesse, di evidente polarizzazione metropolitana, in cui il volano degli investimenti è in qualche modo già avviato (anche con fortissimi interventi pubblici), risulta tecnicamente ineccepibile.
Il vantaggio di accessibilità del nodo roncoduro cede senz'altro all'avviamento strategico già operato sugli altri nodi.
Non c'è posto, da noi, fitto com'è il territorio di cittadine consolidate e di sostanziale contiguità tra centri e periferie, tra capoluoghi e frazioni, per delle edge city: robusti poli terziari che, in una scala metropolitana, integrano le downtown, affrontando le questioni di eccesso di pendolarismo (lavoratori terziari che abitano nei sobborghi e lavorano vicino a casa) e di diffusione degli investimenti immobiliari e imprenditoriali. Siamo sicuri?
Certo è che, se pensiamo a 2 o più city (e abbiamo in mente Londra! ) distanti tra loro una decina di chilometri, siamo dentro un fumetto e contrapporle significa posizionarsi non in una competizione internazionale ma da foro boario. Con questo, tuttavia, non affrontiamo la competizione tra investitori (non solo locali) che è accanita e conosce una effervescenza straordinaria, per l'andamento generale dell'economia. Più che mai, anche se l'avevamo visto negli anni Ottanta con la conquista delle posizioni per la grande distribuzione commerciale, vale la tattica di competizione negativa: sperare che il nodo del vicino sia congelato dalle remore burocratiche, dai ritardi annunziati o (se proprio occorre) dai ricorsi incrociati, giocando sui margini d'anticipo. Perché non vedere che oggi l'outlet o la city per ogni campanile sono l'equivalente della ciminiera e del centro commerciale: mosse piratesche e pilatesche che riportano il volo della vision ad una lotta per la terra.
La proposta di eliminare il termine city e l'equivoco secondo cui una zona economica mista, se ha funzioni terziarie, può stare solo in una città capoluogo, ci sembra troppo semplice per funzionare. C'è chi la definisce igiene linguistica, ma poi c'è il rischio di confrontarsi davvero.
Non serve essere esperti per riflettere che la marmellata è gemella eterozigote delle polarità improvvise: la città di mezzo si diffonde e si addensa con discontinuità, un po' come capita (random, per essere tecnicisti). Perché i Comuni non sono insorti di fronte alla parte di città che si è insediata lungo la strada provinciale, in frazione Cazzago, Comune di Pianiga: un quartiere della metropoli diffusa che si incunea verso il cuore del Dolo, lungo la stessa provinciale SP26 che i dolesi chiamano (romanticamente) Borgo Cairoli, e dove ha sede la casa Municipale (di Dolo). Però da Cazzago devono andare all'Anagrafe di Pianiga.
Perché non c'è stato progetto, ma crescita che definiamo spontanea, che ha dato casa e bottega a tante famiglie? Faccio questo esempio patente, proprio perché è lì, in continuità con questo quartiere della città di mezzo, nella diffusione urbana, che starebbe per addensarsi Veneto City: una mostruosità 'annunciata' in quanto ce lo si poteva aspettare. È "spontaneo" che a qualcuno, che di mestiere fa l'investitore immobiliare, venga in mente di mettere lì un evento che addensi funzioni e cubature della città di mezzo. E siccome ha di fronte un area D - per attività economiche - propone di sviluppare le nuove attività economiche: format di vendita, logistica, terziario, fiere, comunicazioni, ricerca e sviluppo, uffici, quello che in teoria ci potrebbe stare. Fa l'errore di chiamarla city e di attribuirla al Veneto: diciamo che le sue dimensioni, soprattutto, sembrano a tutti fuori scala.
Forse, se avesse avuto di fronte un'area di espansione residenziale avrebbe proposto piccoli condomini, biville e case a schiera e forse sarebbe tutto "passato" come le lottizzazioni lungo la Riviera del Brenta, nelle adiacenze e pertinenze delle ville venete, quelle che la Regione indica alle Province di proteggere come contesti figurativi.
Figurarsi! Stanno cadendo, una per una, sotto la convenienza a costruire.
La campagna è cambiata negli ultimi 5 anni più che negli ultimi 50. Ma. Accanto al nuovissimo gli occhi vedono anche uno straordinario recupero del vecchio: a prescindere dalla correttezza filologica, mai come in questo lustro i centri storici dei paesi e anche molta edilizia rurale (inclusa quella padronale) sono stati oggetto di recupero, restauro, riuso. E ampliamento. Riflettiamo che la dicotomia paventata, tra nuovismo e abbandono o degrado dell'esistente, non si manifesta, sembra che ci sia una convivenza inedita. Sicuramente non documentata scientificamente e non del tutto compresa nei sui risvolti economici e sociali.
La marmellata tende ad agglutinarsi, perché qualunque insediamento tende alla città o a surrogati vicini. E maturano anche velleità, come quelle che vengono chiamate city: se ne vediamo solo il fatto fantasmagorico e speculativo, forse sprechiamo ciò che ci dicono di interessante per dare forma e qualità alla marmellata.
Fuori dal corridoio, a pochi chilometri, ben connessa tramite rotonde e strade provinciali, sta l'area per Fashion City, Città della Moda (che dalle idi di marzo 2008 si chiama Verve): anche questo un titolo che rappresenta altri casi simili. L'area già agricola, già individuata come PIRUEA, recintata per il cantiere, affaccia al Naviglio Brenta: punto del paesaggio rivierasco ordinariamente compromesso da edifici, nella frazione di Paluello (Comune di Stra), dalle usuali diffusioni moderne o vecchiotte, mescolate a ciò che sopravvive di antiche dimore, oratori e loro contesti. Perché non farne un bel parco fluviale, ha detto qualcuno; chi lo paga, ha domandato qualcun altro.
La proposta di Verve è un quartiere di waterfront, con funzioni residenziali (bel posto per vivere) e terziarie (buon modo per investire), un centro commerciale con 70 negozi d'alta moda (una specie di outlet?), uffici, hotel, ristoranti, un centro congressi, un museo, un teatro, persino un parco a tema di tema non identificato (l'area è troppo piccola per contenere tutto questo, ma meglio abbondare che essere deficienti). Non molto diverso dalle funzioni proposte nel fumetto Veneto City, residenza a parte. E poi un attracco per le barche che vanno e vengono dalla Serenissima: plus assoluto (se fosse vero) che il nodo roncoduro non può vantare.
Ed ecco che torna in scena la competizione da foro boario: chi parte per primo vince. Perché tutto sommato la Fashion City, se riferita al distretto calzaturiero poteva benissimo insediarsi nel nodo roncoduro e diventare "la vetrina veneta delle scarpe d'alta moda".
E che differenza sostanziale esiste tra un outlet grandi firme (come il Mall di Incisa Valdarno) e un mall commerciale con 70 negozi di haute couture?
Si tratta di definizioni tipologiche o del solito lessico evocativo, suggerito da esperti di comunicazione? E cosa potremo mai mettere dentro tutti questi musei, distanti fra loro meno di 10 chilometri, nemmeno fossimo sulle rive della Senna? Ma, soprattutto, chi li gestirà nel tempo? E dentro tutti questi teatri, off-off Broadway, chi mai arriverà da un bacino quantomeno regionale? La riflessione è questa: per compattare la marmellata della città di mezzo e aumentare i servizi di tipo metropolitano è necessaria tutta questa fantasmagoria di funzioni improbabili e che tendono ad avere una credibilità inversamente proporzionale al numero di siti in cui vengono proposte identiche?
Forse ci può aiutare introdurre una riflessione relativa ad un protagonista dell'economia contemporanea: il consumatore errante. Sia esso l'accanita brand-hunter cacciatrice di firme, capace di grandi distanze per un paio di calzature di Renè Caovilla a prezzo di fabbrica (ma il costo del viaggio??), sia il viaggiatore di nicchia che cerca la dimora d'epoca con randonnage via acqua, sia i neo-mass, che nel loro itinerario turistico fanno sosta shopping in qualche parco a tema della moda o del murano glass o dello sport.
Dal punto di vista delle aspettative economiche, non fa una piega: ma sono appunto aspettative.
Vuole, questa città marmellata, rinforzare i propri centri a vocazione naturale: paesi, piazze e percorsi pedonali? Moltissimi interventi in questo senso sono già stati compiuti e Dolo, per restare al caso Veneto City, in volta di Secolo ha restaurato quasi tutto il proprio centro storico, rafforzato l'immediato intorno, finalmente connesso la maglia pedonale interna tra antico e moderno, riguadagnato gli scoperti interclusi, organizzato persino un sistema di parcheggi. Questo mentre tutti i centri commerciali della città di mezzo si ampliavano, si rinnovavano, miscelavano nuove funzioni terziarie e attrattive, nascevano colossi come Ikea, category killer come Toys, Trony, Decathlon, e il commercio di arredamento si rifaceva completamente il look, in tutti i magazzini e le botteghe della campagna. Dobbiamo riflettere che nella città di mezzo centro e periferia non sono più così alternativi e così distanti? Stanno, di fatto, convivendo? Stanno compattandosi, spontaneamente?
E, veniamo, infine al punto: che cosa metteremmo nel nodo roncoduro per fare città e non city? Davvero i campi stretti nella tenaglia delle attività economiche esistenti e i campi residui, lì, stritolati dai bordi del corridoio possono diventare un bosco (per biomasse energetiche), un orto urbano o una fattoria didattica, un parco di produzioni dop o doc? Oppure le amministrazioni dei tre Comuni vogliono costruire un corridoio verde, ecologico, che interrompa edificato, attività e marmellata abitativa? Con i denari di qualche perequazione (facendo costruire altrove)?
Questo è il progetto che manca e che rende così difficile dire di no-e-basta o dire si-va-bene solo nelle aree già destinate e solo con le funzioni previste, magari ai tempi che berta filava.
C'è la percezione, in tutti, di perdere una occasione, senza sapere come non perderla.
Se il disegno di 20 anni fa era un nodo produttivo (largamente realizzato in comune di Pianiga) perché non cogliere l'occasione di un interesse privato per riadattare il disegno al domani: prendiamo il fumetto come una sfida a fare un disegno urbano vero, per quartieri metropolitani che nel frattempo sono cresciuti e vivono.
Ha senso vedere il capannone come il male assoluto quando si palesa che Vuitton (ma potrebbe essere qualunque altro marchio) vorrebbe trasferire nella città del Brenta il proprio stabilimento europeo, dopo l'accordo con Rossimoda? Certo che no, ma naturalmente c'è un'area utile all'uopo, in comune di Fiesso. Che, guarda caso, non è quella della Città della Moda. Perché?! La lotta per la terra, il foro boario?
Ma, riflettiamo: un investimento importante di un grande marchio, potrà nel 2010 non avere caratteri di mixitè simili a quelli che nei fumetti chiamiamo city? Non è che anche Vuitton ha pensato al nostro corridoio come ad un est gate, vicino a Venezia, lungo la deliziosa Brenta? E, quanto a stabilimenti griffati (dentro e fuori) c'è qualcuno che ha visto cosa ha fatto il signor Vitra a Weil am Rhein in una campagna di meli, nel nodo autostradale tra Svizzera, Germania e Francia?
Il signor Vitra ha promosso un campus dell'architettura contemporanea (O'Ghery, Hadid, Meier, Ando e via così): la fabbrica, la logistica, il museo, il centro congressi. Tutto li, come un campo dei miracoli, cattedrali e battisteri della merce in mezzo al prato verde, vicino ad una marmellata transfrontaliera, brutta cittadina buttata su negli anni Sessanta, un dormitorio operaio e impiegatizio per chi non poteva permettersi Basilea, attorno un minuscolo borgo originario da Hansel e Gretel.
Ma perché noi no?! Eppure qualche indizio l'abbiamo, per esempio la buona architettura dell'Outlet Ballin a Fiesso (calzature); quello che una volta si chiamava spaccio in fabbrica e nessuno lo trovava fuori luogo.
E l'area della Città della Moda Verve non potrebbe forse rappresentare per la marmellata di Fiesso una occasione per addensare, ridisegnare, compattare gli sfilacci cresciuti a caso, senza riuscire a dare una percezione cittadina ad un comune raddoppiato in tutto tranne che in qualità: non potrebbe essere trattata per impostare un rapporto col Naviglio che dai tempi del flexum Artici nessuno si è più sognato di curare? Lì non siamo in periferia, siamo sull'aorta della Riviera, possiamo cambiare la qualità del suo battito. Il progetto dei privati non soddisfa questa attesa: cambiamolo, trattiamo in base a progetti alternativi. A questo dovrebbe servire l'amministrazione locale e i suoi strumenti che chiamiamo urbanistici, ovvero dedicati a fare città.