Il turismo culturale di larga scala

Traccia per l'intervento al seminario
Turismo cinese in Italia. Opportunità e criticità.
Seminario di Studio nazionale. Firenze 17 marzo 2006

di Isabella Scaramuzzi


Vorrei dare contenuto al titolo scelto per l'intervento.
La larga scala, quando si parla della Cina, è data in primo luogo dei numeri. A fronte della popolazione cinese e del potenziale di consumo turistico che ha cominciato ad esprimersi, i numeri del turismo cinese in Italia sono peanuts, bagigi. Non abbiamo fatto molto per conquistare quel mercato, evidentemente.
Nel sistema turistico veneziano pernottano, nel 2005, poco meno di 151.000 cinesi. Sono in calo rispetto al dato 2004. L'invasione dei cinesi, almeno dal punto di vista degli ospiti turistici ufficialmente registrati, non è avvenuta. Anche gli immigrati regolari residenti in comune sono solo 800 (appena più dei filippini e molto meno dei moldavi). Può darsi che la cinesizzazione sia strisciante, clandestina, informale. O forse dovremmo tenere sotto osservazione, più che le persone che arrivano dalla Cina, i capitali investiti nel nostro sistema ospitale: hotellerie, ristorazione, souvenir.

Molti dei cinesi che dormono come turisti a Venezia sono ospiti di Mestre e prediligono hotel a quattro stelle (poi a tre, e così via): quindi appartengono ad una fascia ricca della popolazione cinese, verosimilmente quella urbana a maggior reddito. Che comunque è una notevole fetta di clientela potenziale, per l'Europa. Diciamo che su 1,3 miliardi di persone possono essere lo 0,1%, cioè 1,3 milioni, cioè un terzo in più dell'attuale turismo che pernotta nella Città Antica……e se anche considerassimo solo la popolazione urbana, sarebbero sempre centinaia di milioni di cinesi, di cui ci basterebbe conquistare un 1 percento. Credo che il problema non sia nè sui numeri, ne per ora sulla "capacità di spesa": venire nelle capitali dell'Occidente resterà nel breve periodo un fatto d'elite, i cosiddetti cinesi della middle and upper class.

Domandiamoci, invece, se questi new comer sarebbero sostitutivi, a Venezia, degli statunitensi, dei giapponesi, degli europei; oppure sarebbero aggiuntivi con problemi di pressione della domanda che già sono molto forti, qui ed ora. Il fatto che prediligano Mestre ci dice molte cose sulla loro "organizzazione", sul numero di letti e sul tipo di alloggio che chiedono, sul potenziale di crescita in un hinterland che non ha gli stessi vincoli di un tessuto antico. Potrebbero quindi dare un ulteriore impulso a quel fenomeno peculiare di overflow da domanda che allarga intorno a Venezia Città Antica un sistema ricettivo "regionale", che passa i confini (va in Austria e in Slovenia), include Terme, Dolomiti, Padania, Adriatico. Potrebbero anche sostenere una ondata di nuova ricettività quattro stelle, da parte di gruppi ricettivi internazionali (magari con capitali cinesi), legati per esempio alle cittadelle aeroportuali o portuali. Insomma: una grossa pressione perchè il nostro turismo cresca e cambi, insieme ai suoi "luoghi".

Quello che è certo è che siamo impreparati, persino a prevedere. Così come siamo stati colti "all'improvviso" dalla competizione cinese, allo stesso modo, paradossalmente siamo impreparati a cogliere le opportunità positive dello sviluppo cinese. Tanto sul fronte della loro offerta che sul fronte della loro domanda di beni di consumo. Tra cui i viaggi.
Non solo ci barcameniamo nella protezione dai rischi, annaspiamo anche nella "raccolta dei benefici", quasi-netti (è chiaro che ospitare più persone ha anche dei costi). Convegni come quello di oggi, sono estremamente utili, per confrontare lo stato dell'arte delle conoscenze e soprattutto per tracciare una strategia comune verso il mercato cinese.

La seconda dimensione "larga" infatti è quella richiesta per affrontare tale mercato. Non solo è necessaria una scelta nazionale (per estremizzare: investiamo sulla Cina o sull'India?) ma è adeguata una strategia Europea. Al di sotto di queste larghe scale siamo naif e inefficaci. Per un cinese arrivare a Francoforte e poi visitare tre nazioni e otto capitali è normale: non siamo affatto attrezzati per organizzare questa scala, abbiamo difficoltà a gestire il flusso di escursionisti da Abano e da Jesolo.
La larga scala è anche quella provinciale: perchè dovremmo rischiare di aggiungere massa su massa nelle nostre destinazioni già sature? Non è forse strategica una politica che cerchi di gestire il nuovo potenziale cinese per mettere a coltura nuove destinazioni provinciali, i famosi territori con le loro caratteristiche produzioni, materiali e culturali? Certo, la prima volta che un cinese viene in Europa, anche per l'assetto degli scali aeroportuali, vorrà vedere le capitali, o l'organizzatore del suo viaggio deciderà che sono quelle le tappe convenienti. Ma è proprio la prospettiva dei grandi numeri futuri che può farci pensare "in largo" anche in senso territoriale.

E qui, entra la terza dimensione larga, che è quella temporale.
Molti osservatori e operatori confermano che, nell'immediato, non saremo invasi dai cinesi e i numeri piccoli sono lì a confermarlo. Ma.
Un conto è attendere passivamente l'evoluzione dell'outbound cinese (sperando che Francia e Germania si consolidino come mete eccellenti?), un altro conto è attivarsi e attrezzarsi per catturare specifici target di domanda cinese, contando sulla progressiva e inevitabile emersione di target variegati, comunque di grandi numeri, anche nelle nicchie. E' un processo fatale di maturazione delle domande emergenti: è successo con i russi che oggi sono un ottimo mercato per destinazioni impensabili nell'anno del loro debutto turistico, dopo il 1989.
Dicono che ci vorranno dieci anni perchè il cinese diventi turista, smetta di viaggiare in delegazione, assuma i connotati di consumatore indipendente e maturo. Dieci anni sono appena sufficienti per mettere in pratica una strategia di posizionamento, la scelta di segmenti all'origine e la promo-commercializzazione di prodotti congruenti.
C'è il rischio di una promozione istituzionale general-generica verso la Cina: senza scegliere a chi vogliamo vendere che cosa.

Se ci rivolgiamo alla Cina dobbiamo per forza pensare ad un circuito di scala globale. Più di 10 anni or sono l'UE ha finanziato un progetto Alternative Routes in Cities of Art, in cui alcune capitali industriali e alcune città d'arte minori dell'Europa, si proponevano sul mercato extraeuropeo attraverso percorsi non convenzionali (es. Granada in alternativa all'Alhambra), capaci di diffondere i benefici del turismo attraverso la messa in valore di "beni culturali" silenti o trascurati (es. le mura di Genova e di Ferrara, il patrimonio di Charles Rennie Mackintosh a Glasgow).
Si trattava di una decina di città europee e di quattro itinerari a tema. La scala minima per dialogare con il trade turistico globale e con alcune formule di turismo, come il bus tour: tipologia prevalente per gli attuali viaggi in Europa dei turisti cinesi.
L'itinerario urbano (il city trail) è uno dei device consolidati nella confezione di prodotti ospitali, che connettono risorse minori capaci, insieme, di fare massa critica. Naturalmente bisogna adattare questi itinerari alla "cultura" del destinatario. Non c'è prodotto valido per tutti, men che meno nella sfera culturale (il caso di Gerusalemme resta emblematico).
Alcuni operatori del trade con la Cina ci dicono che gli itinerari alternativi sono, nel breve periodo, improponibili: però subito dopo ci spiegano che nei sussidiari della Cina, una della immagini più ricorrenti dell'Italia è la Torre di Pisa. Le prime indagini sui consumatori cinesi in Italia ci dicono che amano il barocco, le imbarcazioni tradizionali, il vino, e così via: nei prossimi dieci anni perchè non confezionare, per loro, itinerari che, anzichè Venezia, Firenze e Roma, offrano il Barocco Piemontese o Leccese, il porto Canale di Cesenatico, le vele di Chioggia e le ville venete della Valpolicella? In mezzo a 1,5 miliardi di persone, anche nicchie molto molto specializzate rappresentano turismo di larga scala!

Per esempio quella nicchia di consumatori cinesi che usano Internet, 100.000.000 di persone secondo le indagini, potrebbero essere un target prioritario da conquistare: sono una nicchia, sicuramente evoluta e aperta, già selezionata, se non altro per i canali di promo-commercializzazione oltre che per alcuni interessi, comportamenti, attitudini. Internet è sicuramente un fattore di scambio culturale e di contaminazione globale.

E qualcosa dobbiamo dire, quindi, sul tourism trade, che sembra una delle criticità rispetto al mercato Cinese. Le questioni sono complesse e le lascio agli esperti: qui voglio solo accennare al rapporto tra TO e prodotto culturale. Moltissimo è cambiato negli ultimi 15 anni: prima era quasi blasfemo accostare il turismo culturale al tour operator. Nell'immaginario collettivo un TO era capace solo di muovere mandrie di turisti inconsapevoli verso destinazioni banali, di svago. Oggi, non solo ci sono i TO di nicchia (persino raffinati, specializzati nel turismo etnico ed etico), ma c'è, appunto, la Rete con la potenzialità (almeno virtuale) di confezionare e confezionarsi pacchetti di alta sartoria. Cito qui il caso di un TO "di stato" Maison de la France che da subito si è mossa verso la Cina aprendo a Parigi e a Beijing le Maison de la Chine e producendo offerte di assoluta raffinatezza per far viaggiare i francesi in Cina (analogo comportamento ha la Spagna con Casa Asia). Sono sicura, conoscendo il talento assoluto dei cugini francesi in campo promo-commerciale, che il business è vice-versa!
Voglio dire che oltre a "confezionare" viaggi ad alta suggestione culturale il ruolo del TO diventa quello di un imprenditore di scambi, ruolo assai più complesso e fecondo di quello del "mandriano", passatemi il termine.
Qualcuno saprà anche che alcuni TO "investono" nella conservazione di beni nei paesi di destinazione (es. riserve naturali) o entrano in "cordate" di attori turistici per promuovere località, siti, opere. Nulla per nulla, beninteso. E qui entra in campo l'enorme problema, tipicamente italiano (e che la Francia non ha) inerente la capacità di gestire collaborazioni pubblico private o privato-privato (dato che molti beni culturali sono di proprietà privata: collezioni, ville, parchi, vigneti…). Tema che in campo culturale ha avuto qualche blando tentativo di soluzione (la gestione di siti) ma è ben lontano dall'esplicare le sue enormi potenzialità.
Una vera industria trascurata.

E siamo in pieno nella larga scala della manifattura turistica, che produce beni esperienziali mettendo in opera una serie complessa di altre manifatture, tra cui quella culturale. E, qui, l'etichetta di turismo culturale va veramente esplosa, tolta dalla retorica. Penso che nei larghi scenari che la Cina ci impone (e se fosse l'India sarebbe uguale), la Cultura possa essere vista non "solo" come risorsa di base del turismo (attrazione potenziale primaria o fattore di attrattiva a seconda delle teorie) ma come strategic device: uno strumento non tanto per aumentare i turisti (che resta pur sempre un interessante fattore, anche se nessuno vuole il turismo di massa), ma, proprio, per scegliere il tipo di domanda che ci sembra conveniente accogliere. La Cultura usata come attrazione selettiva.
Fino a pochi decenni or sono il debutto di una località turistica avveniva attraverso le elites, a cui seguiva la massa. Oggi rischiamo di aggiungere numeri massicci (come i cinesi, gli indiani e così via) a masse consolidate, in destinazioni già sature e mature, riproponendo all'infinito la stessa banalizzazione stereotipa. La Cultura deve essere usata per correggere queste derive.

Per usare la Cultura, questo "bene specialissimo", bisognerebbe fare una operazione culturale, prima di tutto fra noi: togliergli quell'aura di sacralità che ha nel nostro Paese e che fa storcere il naso di fronte al turismo. Salvo poi svendere e maltrattare ogni valore, con comportamenti verso le "cose culturali" che hanno molto più del profano che del sacro. A cominciare dai paesaggi. Il lavoro culturale da fare è di grande scala.
Volendosi rivolgere alla Cina, occorre mettere in campo una mediazione culturale di notevole impegno: non solo per le lingue della Cina (mandarino, wu, xiang eccetera eccetera), che ci permetterebbero di mettere in valore tutti i nostri sinologi e linguisti (operazione squisitamente culturale), ma anche per tutti gli scambi internazionali (altra operazione di profonda cultura), di cui alcuni protagonisti sono oggi qui, al Seminario.
E a proposito di scambi va detta anche un'altra cosa: le culture anche se sono ovviamente molto distanti, sono cosa viva e si evolvono anche per contaminazione. Se oggi evidenziamo comportamenti degli ospiti cinesi assolutamente distanti dal bon-ton occidentale e tendenzialmente "chiusi" (frequentano ristoranti cinesi e così via), non è detto che uno scambio culturale avvenga anche attraverso il turismo come esperienza: che dire di un prodotto turistico che avvicini al gusto alimentare dell'Europa, con dei corsi di alta cucina o di degustazione, facendo leva sul vino che sembra essere apprezzato dal cliente cinese? C'è molta differenza tra i cichetti che accompagnano le ombre, e il vassoio che gira con le ciotole delle pietanze?
A Beijing mi è capitato di mangiare delle fantastiche cotolette alla milanese (o wiener snitzler), soltanto erano a piccoli pezzi e accompagnate dal riso.
Forse è vero che a Beijing ci sono pochi ristoranti italiani. Interessa ai nostri imprenditori investire perchè fra dieci anni le cose siano diverse? Nelle capitali della gastronomia europea, se si vuole, si mangia cinese (o ad imitazione dei cinesi) e se si vuole si beve the durante il pasto: non per questo ci sentiamo menomati nelle nostre radici culturali o abbiamo tradito i bigoli e l'amarone.

In generale, poi, intendo che occorra (ricominciare a) produrre cultura, avviare una manifattura di prodotti culturali innovativi, capaci di modificare il mercato del turismo, del tempo libero e delle "visite" (a città d'arte, musei, esposizioni). E questo non riguarda solo il potenziale mercato Cinese, è un discorso di larga scala, riguarda l'economia del nostro Paese.
I prodotti che oggi definiamo "ad alto contenuto esperienziale" sono per definizione ben "spendibili" sul mercato turistico: gli aziendalisti illustrano come, ma da tempo ci sono sociologi che ci hanno spiegato perchè.
Il turismo è un'esperienza, anzi un consumo esperienziale. In questo senso (nonostante le derive) ha anticipato di qualche secolo l'attuale tendenza della produzione cosiddetta materiale.

Nel processo di esplosione dell'etichetta turismo culturale direi che ci vuole una riflessione su ciò che rappresenta la Cultura del nostro Paese: in primo luogo tutto quel contenuto immateriale che entra nelle produzioni cosiddette di design, che vengono ubiquamente riconosciute nel mondo, come italian style, ovvero distillato contemporaneo dei nostri geni artistici e culturali. Appunto.
Nella recente teorizzazione dei cosiddetti distretti culturali, Santagata ed altri, hanno incluso una tipologia che si chiama distretto culturale industriale, come quelli del tessile, del vino, delle calzature, del vetro, della ceramica (ai cinesi piace la produzione di Capodimonte...).
Se osserviamo il cliente cinese, in giro per le nostre città, la relazione tra questi fattori è palpabile: spendono tutto quello che possono nell'acquisto di marchi, con una propensione che fa impallidire qualunque "ricco americano". Certo, si aggiunge, prediligono i Department Store, i grandi magazzini che sono più format commerciali europei che italiani. Ma a ben guardare, anche su questo fronte l'opportunità italiana, di marchi come Diesel, per dirne solo uno (e mi scuso se è veneto e se faccio pubblicità impropria), è evidente: un'altra liason tra prodotti esperienziali, materiali e immateriali. Bisogna lavorare "dentro" questa propensione dei cinesi, oltre il beneficio della "esportazione implicita", nel complesso della comunicazione dei nostri prodotti e del loro contenuto "tipico locale", che sono il sapere e lo stile, inclusi e inscindibili.
Ricordiamoci anche che il visitatore è un veicolo informativo impareggiabile. Tra i comportamenti atipici dei cinesi, segnalati dai nostri albergatori, c'è quello di usare thermos di acqua calda nelle camere: richiedono questo optional di cui, per esempio, l'hotellerie britannica è normalmente provvista (un B&B qualsiasi è attrezzato perchè l'ospite possa onorare il tea-time nella propria stanza). Ma possibile che non ci sia nessuno tra i nostri marchi famosi nel mondo (cito i primi che mi vengono in mente: De Longhi, Alessi, Guzzini, Pedrini) che non sia interessato ad una operazione di promo-commercializzazione, in collaborazione con le catene alberghiere, per la dotazione di thermos, i quali possono veicolare il design italiano nell'uso quotidiano di qualche nicchia cinese, da 100.000.000 di pezzi?
Forse, l'Italia dovrebbe rinnovare anche la cultura del vendere.

Recentemente sono stata a Beijing all'interno di una iniziativa promossa da ICE, APT Venezia e ACRIB, calzature fashion della Riviera del Brenta (cfr. Studi in corso - Chinoiserie).
Le scarpe venivano quasi trascurate: in primo piano c'erano la storia del costume veneziano, dal Duecento (Mostra al Museo Nazionale di Beijing) e le Ville Venete. Un telo fotografico di oltre 10 metri, accoglieva i visitatori della Mostra: un pasticcio in cui le dimore storiche venivano "montate" di seguito, in una suggestiva proposta del territorio brentano, Le terre di Venezia. Parlando con i responsabili del Museo di Beijing, dei beni culturali diffusi nella provincia veneziana e nel Veneto, è emerso che nel sud della Cina esistono edifici assimilabili alle nostre barchesse: evidente iconema dell'uso dei fiumi e della cultura fluviale. Forse, se abbandonassimo gli stereotipi reciproci, Italia uguale Colosseo e Cina uguale Grande Muraglia, il turismo culturale avrebbe molto da guadagnare.
Alcune statistiche ci dicono che solo il 24% dei turisti cinesi ha come motivazione la visita di Musei, il 44% viaggia per svago, il 32% per shopping. Il turismo business non viene considerato affatto, resta un segmento a parte: probabilmente viene assimilato alla ambigua definizione di delegazioni, qualcosa di non turistico. Ci sarebbe molto da criticare in questo trattamento dati: una impostazione quantomeno vecchia e inefficace: che non aiuta nè la cultura nè il business.
Tutte le grandi città del mondo sono qui a testimoniare che il turismo di affari è un'ottima premessa per il turismo culturale, anche nei luoghi in cui (troppo lungamente) sono stati ignorati i beni culturali e messe in primo piano le produzioni manifatturiere tradizionali. Ritenendo che le due "industrie" fossero estranee o addirittura antitetiche: una retorica che dovrebbe essere spazzata via da un rudimento minimo di place marketing.
Ma, anche restando dentro la etichetta stantia del turismo culturale, che dire di un cluster che separa cultura da svago in un mercato che visita soltanto città d'arte e cultura, Parigi, Roma, Venezia, Firenze? Dobbiamo pensare che cinesi spendano 2.000 dollari per venire in Europa a comperare marchi (che i cinesi benestanti trovano anche sotto casa) e a mangiare cinese (meno bene che nei loro ristoranti costosi)? E che si svaghino passando oltre metà del viaggio, in bus? E' vero che i sociologi definiscono il turista l'idiota in viaggio, ma non in questo senso! Forse è per questo che sono pochi, mentre la stragrande maggioranza dei flussi outbound vanno a svagarsi sulle coste e le isole asiatiche o nei distretti del piacere di Macao, Hong Kong e Taiwan!!
Se una attenta analisi culturale dell'universo cinese ci confermasse queste propensioni sociali e antropologiche, avrebbe ragione chi insinua che "sia meglio puntare sull'India" o conquistare quello che ci sfugge del mercato statunitense (qualcosa come il 98% del loro outbound).

E, vorrei chiudere con una nota sulla cultura tecnologica: ormai definire innovativo Internet, i musei virtuali e la promo-commercializzazione in rete suona patetico. Se il nostro Paese è molto molto indietro rispetto ai competitors turistici, forse non sarà l'opportunità cinese a risolvere questa criticità. Ma resto allo stretto tema culturale. Mi piacerebbe dilungarmi sulla questione Cultura-svago e sull'edutaiment, ma sarà per un'altra volta.
Mi limito a dire che esiste una "esposizione alle tecnologie" che come quella "all'arte" produce benefici di lungo periodo e di lunga durata. In altre parole ci sono città (grandi o piccole non importa) dove l'abitudine a confrontarsi con le tecnologie, magari per l'industria manifatturiera tradizionale (l'automobile piuttosto che la meccanica di precisione), ha ottimamente predisposto ad impiegarle anche nella manifattura culturale.
Oggi, allestire esposizioni e trattare beni culturali "silenti" (come gli archivi, i depositi, i monumenti non visitabili, i luoghi privati) diventa largamente possibile grazie alle tecnologie della comunicazione, specialmente se coniugate con quelle della conservazione, archiviazione, catalogazione, restauro (tecnologie materiali). Penso per esempio alle ricostruzioni virtuali dei monumenti e dei siti, di cui abbiamo "solo" reperti archeologici frammentati o "planimetrici". Ma applicando tecnologie adeguate il "gioco" di produrre offerta culturale è davvero infinito. E la illimitata capacità di "informare" che hanno queste tecnologie (arrivando in ogni casa con la loro carica suggestiva) sono già un "anticipo di esperienza", nel luogo di origine del turista.
Si è molto ripetuta la "sciocchezza" che oltre metà del patrimonio dell'Umanità sia in Italia: dipende evidentemente dal patrimonio che si prende in considerazione e di cui si è (già) riconosciuto il valore. Ricordo sempre che Giotto veniva considerato indegno di visite fino alla rivalutazione del Medioevo, molti molti secoli dopo. (Tra parentesi: pare che Giotto non sia affatto apprezzato dai cinesi, che preferiscono il barocco al romanico). Ammesso che il calcolo sia (oggi) viziato potrebbe esserlo per eccesso, se riconoscessimo dignità e valore al patrimonio trascurato del mondo, ma potrebbe anche esserlo per difetto, qualora intraprendessimo l'opera per mettere in valore tutto il nostro patrimonio "poco fruibile", attraverso tecnologie di fruizione. Come per la mediazione linguistica, anche questo lavoro è una gigantesca opportunità di produrre cultura, mettendo all'opera competenze tecnologiche (oltrechè artistiche, storiche, letterarie, turistiche) e di aprire una grande "manifattura culturale" anche sotto il profilo delle imprese e degli investimenti. Non solo nei confronti dei cinesi.
Se per conquistare nicchie di mercato cinese (o indiano) abbiamo dieci anni, per avviare la manifattura culturale del nostro Paese e garantire la qualità del turismo ai nostri clienti abituali, siamo a tempo scaduto.


Isabella Scaramuzzi, Firenze 17 marzo 2006


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